Archivi

Donne che volano

L’umanità ha sempre avuto paura delle donne che volano che siano streghe o semplicemente menti pensanti.

Leggevo sul web questo pensiero, in un momento in cui sto riguardando con rinnovato stupore alla mia adolescenza – ed età adulta – infelice.

Molte volte mi sono chiesta cosa avessi fatto di male ai miei genitori per essere trattata in quel modo, ero bravissima a scuola, ordinata a casa, non ho mai chiesto nulla, ho iniziato a spesarmi da sola prestissimo, non ho mai fatto uso di droghe, mai mentito, mai frequentato cattive compagnie, etc. etc. etc.

Non ero neanche “chiassosa”, a casa non mi si vedeva e non mi si sentiva, ero sempre a leggere, o a ritagliare stoffa, carta, cucire.

Ma per loro ero il mostro. Ricordo mio padre ripetere sempre, come un mantra: “Troverò dove colpirti, troverò come piegarti!”, e questo è stato sempre lo scopo della loro vita, piegarmi, mettermi in ginocchio, per dimostrare a se stessi di essere forti ma, siccome io sono del tipo “mi spezzo ma non mi piego”, mi hanno spezzato, e sono qui ancora con le ossa rotte: la classica partita lose-lose, una guerra senza vincitori, che ha lasciato tutti feriti e sfiniti.

Incontro a una festa una zia che abbiamo sempre frequentato poco, parliamo amabilmente del più e del meno, e lei alla fine con un sorriso, pensando di farmi un complimento, se ne esce con: “ma come sei cara, è bello parlare con te, dicevano che eri pazza, e invece no, sei normale!”. E’ stata una pugnalata, all’epoca avrò avuto una cinquantina d’anni ma, grazie agli “sfoghi” dei miei genitori, continuo ad essere marchiata.

Mia figlia ci ride quando le racconto che mia nonna voleva portarmi dall’esorcista mentre mia madre, più pragmatica, diceva che non mi portava dallo psichiatra per non farmi bollare (a quello pensava lei): e pensare che non ho mai avuto nemmeno atteggiamenti autodistruttivi e mi sono sempre prodigata per il prossimo, da dove nascevano mai certe idee?

Ma certo, dal fatto che fossi indomabile (ricordate la storia della minestra?)

Leggo con orrore che, nel passato, le libere pensatrici venivano addirittura lobotomizzate per “calmarle” e togliere loro “i grilli dalla testa”: pensate che orrore, pensate che abominio, e pensate anche che perdita per l’umanità!

Io nella vita ho commesso crimini gravi come scegliere il cibo da mangiare, scegliere gli studi da seguire, scegliere la persona da sposare e, pensate un po’, persino che partito votare! Ho commesso il grave crimine di rendermi economicamente indipendente e non mettermi mai in condizione di dipendere da nessuno.

Mi sono sempre permessa di dire pane al pane e vino al vino e questo, ahimé, è imperdonabile, soprattutto in una donna.

Oggi ho un tetto sulla testa, indipendenza economica, una figlia che ho tirato su da sola, oggi medico e a sua volta libera pensatrice, ho amici carissimi, sinceri e, modestamente, tutti di grande intelligenza e personalità.

Obbedisco solo alla mia coscienza e al mio senso del dovere e non mi sono fatta mai intimorire da nessuna minaccia e quindi sì, questo mi rende strana, temibile, minacciosa.

Auguri a tutte le donne libere, e che oggi si stringano alle donne che in tutto il mondo stanno lottando per la propria libertà, con un pensiero speciale alle coraggiose donne persiane.

 

L’alluce grattino

Ci sarebbe da ridere se oggi, a distanza di oramai otto anni, non pungesse sempre forte la nostalgia.

Oggi doccia, ovviamente tutti gli abiti puliti e profumati, calze nuove. Esco, capito davanti a un negozio di scarpe, ne vedo un modello che mi piace, entro per provarle.

Tolgo la scarpa – meno male ero da sola – e prepotente dalle calze nere esce un alluce candido, smaltato di rosso, una cosa che si nota poco insomma: sacripante, mi ero messa quelle calze nuove un’ora prima!

Un tuffo al cuore, prepotente un ricordo mi ristringe il cuore, parlavamo con Xavier di calzini, si parlava del materiale, cotone o sintetico, quale fosse meglio perché lui, mi disse, aveva “l’alluce grattino”.

Non avevo mai sentito quel termine e mi fece sorridere, effettivamente rende bene l’idea, lì per lì sorrisi e basta, ma oggi quell’alluce “grattino” mi ha riportato alla mente l’ennesimo ricordo, ed è stato un pugno allo stomaco, più le solite lacrime ingoiate.

Voglio scriverci un post, ho ben presente l’immagine che voglio cercare, vado su google, imposto nella ricerca immagini qualcosa del tipo “mi è entrato un ricordo nell’occhio”, ed ecco che subito appaiono le immagini che avevo in mente.

Scelgo quella che mi piace di più, apro la pagina e… mi ritrovo qui, sul mio blog!

Evidentemente l’avevo già usata per un altro articolo, ma quale articolo? Esattamente questo, “Caro X”, una lettera a lui… perché sì, quell’immagine sono io da quando lui se n’è andato, un ricordo che mi entra negli occhi, all’improvviso, continuamente. Anni in cui abbiamo condiviso tutto, e i ricordi quindi sono davvero tanti.

Rileggo l’articolo, ancora oggi confermo e sottoscrivo tutto. Qualcosa avevo dimenticato, tipo il suo rimprovero di avere scritto sul blog anziché in privato, che poi avrebbe avuto pure ragione, se non ci fossero stati i motivi che nel post gli spiego.

Da quel post sono passati sette anni, anzi, più di sette anni e mezzo, ma il dolore al ricordo per quella frattura, quell’abbandono, non si è placato un attimo.

Ingoio le lacrime sul mio alluce esposto, rimetto la mia vecchia scarpa, porto le nuove alla cassa.

La vita va avanti, mi rimproverò una volta pure che, dopo la discussione, avevo scritto di un eventuale cambio di numero telefonico, e ne avrò cambiati quattro dall’epoca, probabilmente cambierò anche casa, lui forse da quel dì che lo avrà già fatto, ma una cosa rimane costante: fanculo Pelodifiga!

Tra zucchero e caffè, pane e pezzette

Intanto buon 2021!

Ho scelto quest’immagine perché esprime perfettamente il mio stato d’animo ma, considerando che ne hanno fatto per l’appunto una vignetta, ho ragione di credere che sia uno stato d’animo piuttosto condiviso.

Il 2020 è stato duro, durissimo, e per quanto decisamente non sia stato il mio anno sfortunato, direi tutt’altro, ha visto uno scenario mondiale simile a una guerra, e per giunta con armi non convenzionali.

Una pandemia che ci ha colto di sorpresa e che, diciamocelo, non siamo stati capaci di gestire. Molte le persone di coscienza e civili, per carità, ma il loro impegno è stato vanificato per interessi economici, governanti incapaci, e una gran fetta di popolo viziato convinto che coi soldi e col potere ci si possa permettere tutto, oltre all’orda di negazionisti ignoranti e incoscienti.

Ma non è di questo che vi voglio parlare anche perché, diciamocelo, tutti sappiamo già tutto, sono argomenti che oramai ci escono dagli occhi.

Volevo dirvi che, arrivata finalmente al 2021, mi trovo in un momento di grazia, col cuore gonfio d’amore e di felicità.

Intanto perché, dopo una vita vissuta carica di rancore nei confronti di mia madre, ho finalmente avuto l’illuminazione che aspettavo da sempre: l’ho capita.

Ho capito il suo piccolo mondo, le sue piccole cose, le sue piccole idee. Alla fine è stata una donna vittima di se stessa, e anche dei suoi piccoli sogni semplici, della sua piccola vita semplice, dei suoi piccoli desideri semplici.

Il medico di famiglia sosteneva che i miei problemi con la mia famiglia fossero dovuti al dislivello culturale, e io rispondevo piccata che mica litigavamo su Shakespeare o su Dante Alighieri. In realtà il livello culturale non è una questione di conoscenze e nozioni, ma di apertura mentale, di capacità di spaziare, di accettare il diverso, di rispettarlo, anche se questo diverso è tuo figlio, capire che è una persona e non un pezzo di te, capire che il fatto che non sia un soldatino ai tuoi ordini non fa di lui un delinquente da piegare a qualsiasi costo.

Questo fatto non è così scontato come spero sia per voi che leggete, ci sono ancora genitori, in culture più arretrate, che scatenano reazioni che arrivano fino all’omicidio per una figlia che non veste come loro ritengono sia giusto vestire e non sposano l’uomo che loro decidono sia giusto sposare. Ci sono genitori che hanno rovinato i figli “per il loro bene”, semplicemente non capendo che i figli sono altro da noi, sono individui a sé stanti, e li hanno obbligati a studi e carriere totalmente alieni dalle loro inclinazioni.

Ma torniamo allo zucchero e al caffè, al pane e alle pezzette.

Mia nonna aveva un’amica, una grande amica dai tempi della giovinezza. Penso che non ci sia nulla di male a dirne il vero nome, visto che oramai sono morte entrambe da decadi. La sua amica si chiamava Margherita, ed era una persona semplice, che conduceva una vita semplice ed abitava in una casa semplice. Quello che ricordo di nonna era la sua serenità quando si sedeva in quella casa e chiacchierava con la sua amica, sembrava tornata ragazzina. Ricordo le risate argentine, ma soprattutto ricordo il clima di estrema confidenza.

Quello che m’imbarazzava però è che quando l’andava a trovare le portava sempre una confezione di zucchero e una di caffè. A me bambina sembrava molto inappropriato, con i miei ero abituata che quando si andava a trovare qualcuno si andava in pasticceria e si comprava un vassoio di dolci, forse qualche volta, più raramente, un mazzo di fiori, ma mai, mai ci saremmo permessi di portare a qualcuno un chilo di zucchero e una confezione di caffè! Margherita prendeva questi pacchetti e mostrava di gradirli molto, e ringraziava veramente piena di entusiasmo.

Ora, da adulta, diciamo da molto adulta, ho iniziato anch’io a disprezzare formalismi e regali inutili, dolci che nessuno può mangiare per problemi vari di glicemia e colesterolo, ma anche perché le famiglie sono piccole e tutto avanza e si spreca, e poi il pasticcino è ormai una cosa alla portata di tutti, non certo un lusso portato dall’ospite in visita.

Ho anch’io oggi un’amica carissima, di cui invece ometterò il nome per motivi di privacy e che chiamerò Luisella, nome di fantasia, con cui ho più o meno lo stesso tipo di rapporto.

Giorni fa dicevo a mia figlia che con Luisella mi trovo benissimo perché è una persona semplice, dai valori antichi, che apprezza le piccole cose. Noi per aiutarci ci rimbocchiamo le maniche, non compriamo cose, e anche quando ci scambiamo regali sono cose concrete, ben lontane dai regali “classici” che generalmente le persone si scambiano. Luisella è una di quelle cui mi sentirei di portare un chilo di zucchero e un pacco di caffè, e quando sto con lei mi sento come mia nonna con Margherita: a mio agio e spensierata.

Mi torna allora in mente mia madre, e il racconto di mia figlia che, riandando nella sua casa per portare via qualcosa, è scoppiata in lacrime davanti alla sua scatola di pezzette, che la facevano sentire una regina.

Anche mia madre era una persona semplice, che si accontentava di poco e niente, anche se a volte la vita non le ha dato neanche quel poco e niente che le sarebbe bastato.

Mio padre era più “casagrande”, mia madre una formichina che citava spesso l’adagio “con l’ago e la pezzola si manda avanti la famigliola”, era quella che cuciva e rammendava, e se un vestito si macchiava in maniera indelebile sopra la macchia faceva un bel ricamino e ce lo restituiva più bello di prima.

Ricordo lo sportelletto del contatore dell’acqua, che era tutto scrostato e lei, invece di scartavetrarlo e ridipingerlo come avrei fatto io, incapace di certi lavori “da uomo”, gli aveva fatto una bella foderina con una stoffa fiorata.

Mio padre quasi disprezzava questa sua attitudine alle “pezzette”, ma è grazie a queste sue abilità manuali che lei è riuscita a mandare avanti dignitosamente la famiglia anche nei periodi più bui, quando comprare un vestito nuovo era un lusso irraggiungibile.

Ecco, questa ventata di vita semplice rientrata nella mia vita con questa amica, di vecchissima data ma solo recentemente ritrovata, mi ha fatto bene al cuore e questo suo aiuto, fatto non di inutili oggetti regalati da seppellire in fondo a qualche cassetto ma di sostegno concreto, mi sta facendo recuperare forze e quell’entusiasmo che da tempo mi era venuto meno per una deprimente sensazione di totale mancanza di appoggio.

Brindo dunque al 2021, che porti a noi tutti l’uscita da quest’incubo dell’epidemia e che, con la crisi che avrà portato, faccia riscoprire a noi tutti i valori più veri e genuini.

Buon 2021!!!

 

 

Notte dopo (quella) degli esami

Poesia di Raymond Carver

***

Avevo compiuto 18 anni da poco, ero in anticipo sui tempi. Al quarto anno di liceo decisi di fare il “salto”, e presentarmi direttamente all’esame di maturità. I miei non spesero un soldo né di libri né di ripetizioni, feci tutto da sola, sull’enciclopedia o su libri dei compagni del quinto.

Mia madre, con cui già allora c’era un pessimo rapporto, venne a prendermi, emozionata.

A me non fece piacere.

Quello sforzo enorme, pagato non poco a tutti i livelli, mi sarebbe servito – pensavo io – ad avvantaggiarmi un anno di università, perché i miei non volevano che la facessi, dichiaravano di non poterselo permettere, e io speravo di poter dire loro “Fate finta che stia ancora al liceo, in fondo quest’anno avrei frequentato il quinto”.

Non avevo bisogno dei loro soldi, avevo risparmi (avevo iniziato a lavorare fin dall’età di 13 anni per pagarmi gli studi universitari), e in più avevo degli sgravi per merito.

Ma lei non volle, non volle, non volle.

Passai l’estate dopo la maturità, superata brillantemente, a singhiozzare perché volevo studiare, ma non c’era verso che me lo permettessero, a nessun costo. Incontravo i miei compagni che non avevano nessuna voglia di proseguire, e i genitori lì a promettere loro mari e monti perché almeno tentassero. Arrivai a cambiare strada quando lì incontravo.

Me le ricordo quelle lacrime, e quel cambiare strada a testa bassa.

Mia madre arrivò a buttare i libri che avevo comprato (e pagato non poco!) pur d’impedirmi di studiare.

Fu così che seguii il primo imbecille che mi si portò all’estero, promettendomi che avrei potuto studiare lì (cosa che feci, ma non certo grazie a lui).

Non ho mai perdonato mia madre, mai.

Sono passati 41 anni e ancora non riesco a fare pace con questa cosa (né lei cambiò mai atteggiamento, né su questo né su tutto il resto).

Scusate se non risponderò a vostri eventuali commenti, ma mi fa troppo male.

Il caciocavallo (by Rita La Rosa)

“The Favorite” by Georgios Iakovidis

***

Cari amici, eccomi dopo lungo silenzio con una chicca per voi. Una mia amica ha simpaticamente raccolto il guanto della sfida lanciato anni fa su chi si sarebbe voluto cimentare in un’ode al caciocavallo, e ne sono usciti questi versi di una dolcezza unica. Io, pur non conoscendo il dialetto siculo (ah, quanto vorrei che Arthur fosse qui con noi!), leggendoli mi sono commossa, e comunque sotto c’è la traduzione in italiano. L’autrice ci prega, nel caso dovessimo copiare la poesia altrove, di riportare, oltre ovviamente al suo nome, anche la dedica al nonno e alla mamma, che del componimento desidera costituisca parte inscindibile.

U Cascavaddu, u vinu di Vittoria e a nustalgia

Eru ‘na picciridda e m’ piaciva
U nonnu mu civava pianu pianu
A vucca mia, ricordo, ca ririva
Mangiannu tuttu u pezzu sanu sanu

Ma Matre, mu civava cu lu pani
chiddu d’casa ch’m’ piaciva assai
Rraffavu su furmaggiu cu li mani
U pani, nonsi, un nnu mangiavu mai

U cascavaddu bbonu e sapuritu
M’ lassava a vucca assai salata
Eru ‘na criaturedda e cu lu dito
Rrattavu a ma lingua arrutuliata

U nonnu che assai bbene m’ vuliva
Senza cha Mamà virisse ch’ faciva
Dicennu “ma nipute è comu ammia”
Co vinu di Vittoria mallinchiva

Do bummulu u mittiva intru u bcchere
“Nanticchia – m’ diciva – sciatu miu “
“Un t’ fare viriri, girate i darrere
Ca Mamà tua ci penzu ggiustu iu”

Sentu a nustalgia do passatu
Eru ‘na criaturedda sapurita
Co cascavaddu in manu e fra li dita
Sentìa ca ‘mavivu arricriatu

di Rita La Rosa – 17 febbraio 2019

In ricordo di mio Nonno Vincenzo Coco (detto Nonno Cecè) e di mia Mamma Pina e delle mie vacanze marine a Gela

Traduzione

Il Caciocavallo il vino di Vittoria e la nostalgia

Ero una bambina e mi piaceva
Il Nonno mi imboccava piano piano
La mia bocca ricordo che rideva
Mangiando tutto un pezzo intero

Mia Mamma me lo dava con il pane
Quello di casa che mi piaceva molto
Arraffavo quel formaggio con le mani
E il pane, nossignore, non lo mangiavo mai

Il Caciocavallo buono e saporito
Mi lasciava la bocca molto salata
Ero una bambina e con il dito
Mi grattavo la lingua arrotolata

Il Nonno che mi voleva tanto bene
Senza che Mamma vedesse che faceva
Dicendo “Mia nipote è come me”
Col vino di Vittoria mi riempiva

Dall’orcio lo metteva nel bicchiere
“Poco – mi diceva – fiato mio”
“Non ti fare vedere, girati di schiena
Che a Mamma tua ci penso giusto io”

Sento una nostalgia del passato
Ero una bambina graziosa
Con il Caciocavallo in mano e fra le dita
Sentivo che mi ero ricreata.

Di Rita La Rosa – 17 febbraio 2019