Vorrei unaa vostra opinione su una situazione imbarazzante in cui mi sono trovata, ahimé, oramai parecchie volte (diciamo tre o quattro).
Io ogni tanto sono stata all’estero, ci ho anche vissuto, e alla domanda “Di dove sei?” ho sempre tranquillamente risposto che sono italiana. Sì, è vero, a volte, mi riferisco principalmente al 1978, mi sono sentita rispondere “Ah, Italia, Brigate Rosse!”, ma al massimo ho trovato l’osservazione retorica e banale, mai un’offesa nei miei confronti.
Ora, la prima volta è successo per telefono, con la moglie di una persona importante con cui era in ballo una questione lavorativa. Mi telefona dunque questa signora, che ogni due per tre sottolinea che è medico (e stic…?): cioè, voglio dire, è una cosa assolutamente normale, che nel discorso può venir fuori e pure essere interessante, ma se una comincia a dire: “Buongiorno, sono la moglie di Tizio e sono medico, telefono per quella questione di mio marito, chiamo io perché ho più pratica con la materia anche se faccio un’altra cosa (sono medico), mi dica quando posso venire, fuori dall’orario di studio perché sa, sono medico…” comincia a diventare un po’ pesante.
Dunque, la signora parlava un italiano ineccepibile, ma un certo punto se ne esce con una parola – non ricordo quale – che mi fa pensare che sia straniera. Non ricordo quale fosse la parola, ma avete presente quelle che hanno una declinazione/coniugazione irregolare ma che un italiano non sbaglierebbe mai (per esempio, un italiano non direbbe mai “io ando” anziché “io vado”), quindi mi viene la curiosità e le chiedo: “Ma lei è straniera?”: non l’avessi mai detto! Si irrigidisce e risponde stizzita “Perché me lo sta chiedendo?”. Io tranquillamente le spiego che era per una questione linguistica, che sentendola parlare mi pareva di aver capito che non fosse di lingua madre italiana e mi era venuta la curiosità di saperlo e lei risponde secca “Ah, è per questo. No, non sono italiana”. A me sarebbe venuto spontaneo rispondere “No, non sono italiana, sono… quello che era, francese, inglese, americana, iraniana, indiana, marocchina, qualunque cosa fosse e invece no, liquida la questione con un lapidario glaciale “No, non sono italiana”.
Ora, siccome me ne importava il giusto, cioè niente, ho continuato con la questione di lavoro, portata regolarmente a termine, e non ho più detto una sola parola che non riguardasse l’argomento in essere: io sono una persona molto socievole, sono la prima ad attaccare bottone, ma se tu poi questo bottone non lo vuoi non è che io te lo imponga, figuriamoci!
Anni dopo vado con mia figlia in un ristorante. Viene un cameriere a prendere l’ordine, si scusa perché non parla bene italiano, aggiunge che è in Italia da poco. Io, chiaramente disponibilissima a impiegare più tempo a farmi capire, magari indicando le pietanze sul menù, gli rispondo “Non si preoccupi. Di dove è?”: voi non avete idea, a momenti si consumava una tragedia, ha fatto una scenata che temevo mi rovesciasse il tavolo addosso!
Io “Stia calmo, tranquillo, non voglio sapere niente, va bene così”. Lui ha continuato a urlare, se n’è andato stizzito, abbiamo passato il resto della cena con lui che quando portava le pietanze le tirava tipo osso al cane, occhi bassi e grugnendo, una situazione davvero tesa.
A fine cena si avvicina tutto dolce a chiedere se era andato tutto bene. Io, più che mai sconcertata, gli rispondo rigida: “Bene, grazie”.
Paghiamo e mentre stiamo uscendo ci corre dietro, chiede scusa. “Ok,” rispondo io tra l’asettico e il perplesso “tranquillo, va tutto bene”. Insiste, chiede se davvero lo perdono e se siamo amici, della serie “se non sono matti non ce li vogliamo”. Ribadisco che non ci sono problemi e va tutto bene e me ne vado, pensando ovviamente di non tornare, almeno a breve: abbiate pazienza, se vado a cena fuori è per passare una serata in santa pace e tranquillità, non per stare in tensione!
Certo, immagino che dietro quella reazione ci sia tanto dolore, una vita difficile, probabilmente anche tanti episodi di razzismo, pregiudizio, ma non puoi fare un processo alle intenzioni! Quando tu vieni da un paese che tu pensi, a torto o a ragione, sia giudicato negativamente, puoi temere che quando lo vengono a sapere possano nutrire preconcetti, ma a quel punto posso capire che tu stia sul chi va là, non che se ti chiedono di dove sei tu attacchi e in modo pure violento come se ti avessero insultato e percosso!
Io appartengo a una minoranza, e appartengo a una minoranza spesso discriminata, ma non ho dato MAI e dico MAI per scontato che la persona davanti a me avesse dei pregiudizi, non ho MAI attaccato nessuno per avermi chiesto se ero questo o quello e a volte, credetemi, il pregiudizio c’era eccome, ma io ho reagito – e mai violentemente, semmai con freddezza o sarcasmo – quando hanno manifestato il preconcetto, non quando hanno posto la domanda!
Mia figlia dà ragione a loro e sostiene che io debba farmi gli affari miei e smetterla di chiedere alle persone di dove sono. Per me chiedere a una persona di dove è è come chiedere se ha figli, che lavoro fa, insomma, un’informazione qualsiasi di quelle che ci fanno conoscere, senza pregiudizio alcuno. Significa stabilire un contatto, aprire un dialogo. Le mie domande sono una curiosità umana, sociale, antropologica. Mia figlia – altra generazione, altra mentalità – prontamente obietta: “Mamma, generalmente le persone a cui viene chiesto di dove sono non si trovano davanti un antropologo ma un razzista!”.
Ma è davvero così brutto il mondo? Davvero devo “farmi gli affari miei che campo cent’anni”, infischiandomene del prossimo, di chi è, da dove viene, come ha vissuto, cosa sogna, cosa spera, cosa ha sofferto, quando ha gioito? Davvero non si usa più conoscersi, davvero “non sta bene” parlarsi?
Adesso capisco anche perché tante coppie si lasciano: una mia amica, che aveva una relazione a distanza, è stata lasciata perché lui ne ha trovata una che abitava più vicino ed era una situazione più comoda. Ma stiamo parlando di un paio di ciabatte o di una vestaglia? Di un appartamento? Di un’automobile? Cioè, io per te non sono Anna, o Maria, o Francesca, con la mia storia, il mio carattere, la mia identità, ma sono solo “una”, sostituibile con “una più comoda”?
Esiste più il conoscersi e l’amarsi e apprezzarsi per quello che si è? Io sono allibita.
Confido che al mondo ci sia ancora tanta gente che abbia nei confronti del prossimo un interesse umano e, come dire, “personalizzato”!