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Tra zucchero e caffè, pane e pezzette

Intanto buon 2021!

Ho scelto quest’immagine perché esprime perfettamente il mio stato d’animo ma, considerando che ne hanno fatto per l’appunto una vignetta, ho ragione di credere che sia uno stato d’animo piuttosto condiviso.

Il 2020 è stato duro, durissimo, e per quanto decisamente non sia stato il mio anno sfortunato, direi tutt’altro, ha visto uno scenario mondiale simile a una guerra, e per giunta con armi non convenzionali.

Una pandemia che ci ha colto di sorpresa e che, diciamocelo, non siamo stati capaci di gestire. Molte le persone di coscienza e civili, per carità, ma il loro impegno è stato vanificato per interessi economici, governanti incapaci, e una gran fetta di popolo viziato convinto che coi soldi e col potere ci si possa permettere tutto, oltre all’orda di negazionisti ignoranti e incoscienti.

Ma non è di questo che vi voglio parlare anche perché, diciamocelo, tutti sappiamo già tutto, sono argomenti che oramai ci escono dagli occhi.

Volevo dirvi che, arrivata finalmente al 2021, mi trovo in un momento di grazia, col cuore gonfio d’amore e di felicità.

Intanto perché, dopo una vita vissuta carica di rancore nei confronti di mia madre, ho finalmente avuto l’illuminazione che aspettavo da sempre: l’ho capita.

Ho capito il suo piccolo mondo, le sue piccole cose, le sue piccole idee. Alla fine è stata una donna vittima di se stessa, e anche dei suoi piccoli sogni semplici, della sua piccola vita semplice, dei suoi piccoli desideri semplici.

Il medico di famiglia sosteneva che i miei problemi con la mia famiglia fossero dovuti al dislivello culturale, e io rispondevo piccata che mica litigavamo su Shakespeare o su Dante Alighieri. In realtà il livello culturale non è una questione di conoscenze e nozioni, ma di apertura mentale, di capacità di spaziare, di accettare il diverso, di rispettarlo, anche se questo diverso è tuo figlio, capire che è una persona e non un pezzo di te, capire che il fatto che non sia un soldatino ai tuoi ordini non fa di lui un delinquente da piegare a qualsiasi costo.

Questo fatto non è così scontato come spero sia per voi che leggete, ci sono ancora genitori, in culture più arretrate, che scatenano reazioni che arrivano fino all’omicidio per una figlia che non veste come loro ritengono sia giusto vestire e non sposano l’uomo che loro decidono sia giusto sposare. Ci sono genitori che hanno rovinato i figli “per il loro bene”, semplicemente non capendo che i figli sono altro da noi, sono individui a sé stanti, e li hanno obbligati a studi e carriere totalmente alieni dalle loro inclinazioni.

Ma torniamo allo zucchero e al caffè, al pane e alle pezzette.

Mia nonna aveva un’amica, una grande amica dai tempi della giovinezza. Penso che non ci sia nulla di male a dirne il vero nome, visto che oramai sono morte entrambe da decadi. La sua amica si chiamava Margherita, ed era una persona semplice, che conduceva una vita semplice ed abitava in una casa semplice. Quello che ricordo di nonna era la sua serenità quando si sedeva in quella casa e chiacchierava con la sua amica, sembrava tornata ragazzina. Ricordo le risate argentine, ma soprattutto ricordo il clima di estrema confidenza.

Quello che m’imbarazzava però è che quando l’andava a trovare le portava sempre una confezione di zucchero e una di caffè. A me bambina sembrava molto inappropriato, con i miei ero abituata che quando si andava a trovare qualcuno si andava in pasticceria e si comprava un vassoio di dolci, forse qualche volta, più raramente, un mazzo di fiori, ma mai, mai ci saremmo permessi di portare a qualcuno un chilo di zucchero e una confezione di caffè! Margherita prendeva questi pacchetti e mostrava di gradirli molto, e ringraziava veramente piena di entusiasmo.

Ora, da adulta, diciamo da molto adulta, ho iniziato anch’io a disprezzare formalismi e regali inutili, dolci che nessuno può mangiare per problemi vari di glicemia e colesterolo, ma anche perché le famiglie sono piccole e tutto avanza e si spreca, e poi il pasticcino è ormai una cosa alla portata di tutti, non certo un lusso portato dall’ospite in visita.

Ho anch’io oggi un’amica carissima, di cui invece ometterò il nome per motivi di privacy e che chiamerò Luisella, nome di fantasia, con cui ho più o meno lo stesso tipo di rapporto.

Giorni fa dicevo a mia figlia che con Luisella mi trovo benissimo perché è una persona semplice, dai valori antichi, che apprezza le piccole cose. Noi per aiutarci ci rimbocchiamo le maniche, non compriamo cose, e anche quando ci scambiamo regali sono cose concrete, ben lontane dai regali “classici” che generalmente le persone si scambiano. Luisella è una di quelle cui mi sentirei di portare un chilo di zucchero e un pacco di caffè, e quando sto con lei mi sento come mia nonna con Margherita: a mio agio e spensierata.

Mi torna allora in mente mia madre, e il racconto di mia figlia che, riandando nella sua casa per portare via qualcosa, è scoppiata in lacrime davanti alla sua scatola di pezzette, che la facevano sentire una regina.

Anche mia madre era una persona semplice, che si accontentava di poco e niente, anche se a volte la vita non le ha dato neanche quel poco e niente che le sarebbe bastato.

Mio padre era più “casagrande”, mia madre una formichina che citava spesso l’adagio “con l’ago e la pezzola si manda avanti la famigliola”, era quella che cuciva e rammendava, e se un vestito si macchiava in maniera indelebile sopra la macchia faceva un bel ricamino e ce lo restituiva più bello di prima.

Ricordo lo sportelletto del contatore dell’acqua, che era tutto scrostato e lei, invece di scartavetrarlo e ridipingerlo come avrei fatto io, incapace di certi lavori “da uomo”, gli aveva fatto una bella foderina con una stoffa fiorata.

Mio padre quasi disprezzava questa sua attitudine alle “pezzette”, ma è grazie a queste sue abilità manuali che lei è riuscita a mandare avanti dignitosamente la famiglia anche nei periodi più bui, quando comprare un vestito nuovo era un lusso irraggiungibile.

Ecco, questa ventata di vita semplice rientrata nella mia vita con questa amica, di vecchissima data ma solo recentemente ritrovata, mi ha fatto bene al cuore e questo suo aiuto, fatto non di inutili oggetti regalati da seppellire in fondo a qualche cassetto ma di sostegno concreto, mi sta facendo recuperare forze e quell’entusiasmo che da tempo mi era venuto meno per una deprimente sensazione di totale mancanza di appoggio.

Brindo dunque al 2021, che porti a noi tutti l’uscita da quest’incubo dell’epidemia e che, con la crisi che avrà portato, faccia riscoprire a noi tutti i valori più veri e genuini.

Buon 2021!!!

 

 

Di adozione

Mano bimbo adulto

Parlando di problematiche relative agli omosessuali è venuto più volte fuori il tema dell’adozione che, con l’omosessualità, secondo me non ci azzecca né poco né punto.

Eccellente il nuovo concetto abbracciato dal diritto di famiglia per cui  “adozione” non significa “dare un bambino a una famiglia”, ma “dare una famiglia un bambino“: con l’adozione infatti s’intende colmare il bisogno di un bambino solo e abbandonato, non soddisfare un capriccio (o legittima aspirazione che sia).

Oggi leggevo questa frase molto vera e significativa: “Il bambino deve essere felice, non farci felici”.

Tutto questo credo che metta un punto alla questione dell’adozione da parte di coppie omosessuali (ed eterosessuali): non c’interessano – in questo contesto intendo – i loro sogni, bisogni, desideri, rivendicazioni, etc. etc., c’interessa unicamente che il bambino abbia una famiglia, trovi un suo equilibrio, superi i suoi traumi.

E’ lui al centro dell’universo dell’adozione, non gli adulti.

Ora, tutti voi saprete che adottare è un iter tutt’altro che facile. In territorio nazionale c’è, grazie al cielo, poca offerta, e quello internazionale è un territorio ben affollato, con aspiranti genitori in competizione da tutto il mondo.

Chi decide dell’adozione valuta le relazioni degli assistenti sociali, sulla base delle quali si pronuncia il giudice per stabilire o meno l’idoneità dei genitori all’adozione.

Ora, quali sono i criteri sui quali viene valutata l’adozione? Certo la solidità della famiglia, sia da un punto di vista economico sia psicologico. Premesso che, secondo me, ogni tanto psicologi e assistenti sociali prendono delle cantonate incredibili (ma questo temo sia  fisiologico), è molto importante per l’adottando l’accoglienza.

Il bambino adottabile è un bambino per lo più traumatizzato. Purtroppo, per una serie di pastoie giuridiche, nazionali e internazionali, difficilmente si riesce ad adottare un neonato. Ho assistito a varie conferenze sull’argomento (soprattutto dell’A.I.B.I.), e la situazione è angosciante: su un fronte, una miriade di coppie senza figli, con tutta la possibilità del mondo di accoglierli e amarli, sull’altro una miriade di bambini senza famiglia, bisognosi di essere accolti ed amati, e questi due mondi non s’incontrano, o meglio s’incontrano solo parzialmente tra mille difficoltà e le difficoltà, in questi casi, significano tempo e il tempo, in questi casi, lavora contro.

Una volta che il bambino entra in famiglia, i genitori adottivi (o aspiranti tali, visto che per il primo anno parliamo di affidamento preadottivo) hanno talora comportamenti, sia pure in buona fede, controproducenti: prendere un bambino di cinque, sei, sette anni, e pensare che sia nato in quel momento, è un errore enorme.

Il bambino ha un vissuto spesso traumatico, che va elaborato, per essere accettato e metabolizzato, quindi superato: pretendere che venga accantonato, dimenticato come se non fosse mai esistito, significa creare dei buchi neri nella loro anima, che Dio solo sa cosa potranno inghiottire.

Il bambino che noi adottiamo non è il giocattolino che finalmente Babbo Natale ci ha portato: viene da un altro mondo, spesso parla un’altra lingua e non capisce la nostra, assai presumibilmente ha avuto fame, freddo, paura, forse ha visto morire i suoi genitori, o forse ne è stato picchiato a morte, o forse non li ha mai visti.

Forse ha vissuto la guerra.

Io vi giuro una cosa: quando da piccola mia figlia, la notte, era spaventata da qualcosa, che fossero tuoni, lampi o brutti sogni, e veniva a rifugiarsi tra le mie braccia, non c’è stata una sola volta che, abbracciandola, il mio pensiero non sia andato a quei bambini che quella paura se la dovevano tenere.

A volte gli aspiranti genitori, quando finalmente arriva il bambino, pensano al loro sogno soddisfatto, e non a quello che significa e che comporta: il numero di bambini “restituiti” (che parola terribile!) durante l’anno di affidamento preadottivo è altissimo (a riprova degli abbagli di chi valuta).

C’era un bambino che, oltre a nascondersi ovunque, faceva persino la cacca nei cassetti, tra la biancheria preziosa e profumata degli aspiranti genitori &C.  Lo stesso bambino che però, a volte, vinceva le resistenze, e si faceva fare la sua doccetta docile docile, quasi stupito…

Questa che vi ho appena raccontata non è una storia andata a buon fine: dopo essere stato “restituito” un po’ di volte, pare sia finito in un istituto psichiatrico 😥

Conosco una madre che ha adottato due gemelle e, per quanto ne sia stata felice nel momento in cui le ha prese, il primo anno me la ricordo coi capelli dritti e gli occhi di fuori; questa però di storia ha un lieto fine: per quanto mi risulta, le due figlie sono due splendide ragazze, molto amate, che vivono più o meno spensieratamente la loro vita.

Non parliamo poi di quando il figlio arriva in una famiglia dove già ci sono  figli naturali! L’istinto dei genitori è spesso quello di fiondarsi sul nuovo arrivato riempendolo di attenzioni, suscitando così l’insana gelosia degli altri, e compromettendo ogni equilibrio.

Insomma, andiamoci cauti, l’adozione non è: “Che bello, abbiamo un bambino!”, ma piuttosto “Il destino ha portato nella nostra casa un bambino da accudire, crescere, amare, un bambino che ha enormemente bisogno di noi, anche per superare un passato di cui forse non ci parlerà mai, ma che è ben presente nella sua mente e nel suo cuore”.

Mi fermerei qui, magari un’altra volta torniamo a parlare dei sentimenti del bambino, quelli successivi, quando saprà di essere stato adottato, quando saprà che esistono, in qualche parte del mondo, una madre e un padre che non lo hanno voluto, quando saprà di avere fratelli e fratelli che chissà dove sono, come sono finiti, e che non vedrà mai.

Letture consigliate: “Il cammino dell’adozione“, di Anna Oliverio Ferraris e, se vi volete incazzare (almeno a me ha fatto questo effetto) , “Perché mi hai preso?”, di Simonetta Cavalli.

Una bambina famosa

Bimba turca che copre gli occhia alla sua bambola

Fonte foto: http://www.trekearth.com/gallery/Middle_East/Turkey/Marmara/Bursa/photo1138502.htm

In questi giorni sta girando moltissimo la foto di questa bambina, in realtà datata (è del 2009): il fatto è che solo adesso, pur trattandosi di una bambina turca, si ha la possibilità di farla passare per bambina di Gaza, che copre gli occhi alla sua bambola per non farla assistere all’orrore.

Su fb è virale, e per quanto ci diamo da fare a smentirla e a indicarne l’origine, riciccia continuamente come “bambina di Gaza”, spesso diventata avatar di tanti “pacifisti”.

Qualcuno ha cancellato le smentite, qualcuno ha rettificato pur dicendo che è lo stesso, che la bambina rappresenta l’orrore della guerra, quell’orrore che i suoi occhi non vorrebbero vedere, e così copre protettivamente quelli della “sua” bambina, la bambola.

Ok, ma allora cambia la didascalia.

Alcuni hanno persino obiettato, provocatoriamente, che non possono pubblicare foto di bambini gazawi perché li hanno uccisi tutti gli israeliani (ma nessun cenno a quei 160 bambini, povere creature morte nella costruzione dei tunnel del terrore, e continuano a pubblicare filmati di bambini che prendono a sassate i soldati isreliani, che non reagiscono!).

Anche a voler essere obiettiva, mi sfugge il motivo per cui, con tanto materiale fotografico che dovrebbero avere, continuino a pubblicare esclusivamente fake. La guerra c’è davvero, i morti per forza ci saranno stati, perché questo istinto alla mistificazione a prescindere?

La foto del bambino con la varicella, addirittura presente sulla wikipedia tedesca e quella della bambina con una rara malattia della pelle, i cui genitori chiedevano aiuto anche economico per curarla in un articolo apparso vario tempo prima,  sono state spacciate per foto di bambini vittime di fantomatiche bombe al fosforo bianco usate da Israele.

Insomma, questa foto è davvero bellissima, intensissima e piena di significato, ma diamo a Cesare quel che è di Cesare!

E poi, guardatela, questa bambola è lacera e sporca, mentre le bambola di Gaza, anche sotto i peggiori bombardamenti, non si fanno un graffio! Mi riferisco a questo articolo de “Il Borghesino”, leggete e guardate tutte le foto: le macerie sono vere (di dove non è dato saperlo), ma le bambole intonse sono state chiaramente messe lì a posteriori, per parlare alla pancia dei lettori, non alla testa, nessuna intenzione di fotografare una situazione reale!

E, a proposito di testa, visto che chi la usa c’è, molti si sono dichiarati perplessi di fronte a quel bambino che non sembrava proprio gazawi, e quella bambina che aveva quei problemi di pelle solo sulle parti del corpo coperte, e non sul viso che, scoperto, sarebbe dovuto essere la parte più lesa.

Insomma, le menti pensanti grazie al cielo ci sono!

Chi figli e chi figliastri

strage in Siria

Ho appena letto un articolo che lamenta che per questi bambini, massacrati in Siria, nessuno si muove. Tutte quelle organizzazioni “umanitarie”, le varie Freedom Flotilla, il BDS (movimento che incita a boicottare Israele), tutti tacciono.

Posso fare una previsione? Tra un po’ questa immagine verrà spacciata come un massacro compiuto da Israele, e allora torneranno tutti a scalciare per queste povere creature.

Ma i bambini, non sono tutti uguali? O la loro importanza dipende dal luogo in cui perdono la vita?

Toccante la testimonianza di un bambino siriano di tre anni, che prima di morire ha detto: “Sto andando a raccontare tutto a Dio!”

Lo farà.

PS: sempre sulla linea “Chi figli e chi figliastri” potete leggere un altro articolo qui.

Una zuppa per non dimenticare

Quest’anno, in occasione della giornata della Memoria, voglio proporre questa testimonianza, presa dal blog civuoleunfiore della nostra cara Nives:

Una zuppa per non dimenticare

di  Annalisa Pasqualetto

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“Natale! Anche quest’anno è arrivato. Le strade e le vetrine sono una festa per gli occhi, e tutto è un brillìo. Le sere sono talmente lunghe che mi portano a pensare: ai regali da fare, agli auguri da spedire, e a preparare tante leccornie….ma sopratutto mi ritornano in mente uno alla volta i Natali passati, quelli di una volta, quando ero bambina. Tutti mi hanno donato emozioni e ricordi, ma tra i tanti ha lasciato di più il segno quello che ho passato in casa di un fratello di mio papà: lo zio Bepi. Bepi era il terzo figlio, dopo lo zio Armido e mio papà Piero, lo ricordo come la persona più ingegnosa che abbia conosciuto; sapeva fare di tutto, e sbrogliare qualsiasi situazione o problema. Io gli volevo tanto bene, ma gliene ho voluto ancora di più dopo esser stata con lui un Natale. Quell’anno aveva compiuto 50 anni e così aveva pensato di festeggiare il compleanno e Natale in compagnia di chi gli stava più a cuore; aveva però spiegato che sarebbe stata una cena di vigilia “special”. Non si era in tanti, solo i parenti più stretti, e io mi sono subito seduta in tavola vicino ai miei cugini, come loro piena di allegria e contentezza.

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“Prima di cenare vi voglio raccontare una storia” disse lo zio Bepi, e tutti siamo stati zitti ad ascoltare. “Stasera voglio ricordare il Natale del ’44, un Natale di guerra. Mi trovavo in Campo di Concentramento in Germania.

Mi avevano preso i tedeschi dopo l’8 settembre assieme ad altri soldati, io ero di marina. Senza ordini e sbandati, senza sapere cosa fare o dove andare, ci siamo trovati su un treno merci che ci ha condotti al nostro Calvario. Morsi dalla fame e pieni di spavento, ci si trascinava come fantasmi dove ci comandavano di andare, il lavoro ci massacrava e di sera ci si accasciava su materassi bisunti, sfiniti dentro e fuori. Il Campo non era solo una casermona fatta di pietre e filo spinato, era un altro mondo, fatto di gelo e di desolazione, ci si sentiva privati dell’anima e della voglia di vivere.

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Era così giunta la vigilia di Natale, stavamo tutti zitti, parlavamo solo con le nostre memorie, non c’era bisogno di dirsi alcuna cosa, ci si specchiava negli occhi dei compagni, uniti dallo stesso destino, dalle stesse sopraffazioni. Ci sembrava di essere tornati bambini, piccoli, indifesi; ci veniva in continuazione la voglia di piangere. Quella sera di vigilia era peggiore delle altre, la neve aveva imbiancato tutto, nella mia baracca non c’era Presepio, non c’era albero, non c’era una pentola che borbottava sul camino, solo un freddo cane e avevo tanta, tanta fame.

Zupperba

Non ce la facevo più a stare là dentro e anche se non si poteva, sono uscito a camminare attorno al campo; sentivo il chiasso dei guardiani che facevano festa nella loro dimora e ho visto là per terra sulla neve un mucchietto di bucce di patate. Le ho raccolte, in mezzo c’erano pure due o tre rape, mezze marce: avremmo festeggiato il Natale anche nella nostra baracca! Con quel tesoro in mano sono tornato dentro, abbiamo pulito quel ben di Dio sulla neve e preparato una zuppa. L’abbiamo mangiata piano, piano, quasi con devozione, domandandoci se quello sarebbe stato l’ultimo nostro Natale. Io ho pensato a mia mamma che aveva tutti e tre i figli in guerra e non sapeva quasi nulla di alcuno, ho pensato alla mia casa, alla mia chiesa, al buon odore dell’incenso che si sperdeva nell’aria durante la Santa Messa di mezzanotte e sentivo un groppo in gola che mi soffocava….

la neve

Sono trascorsi i mesi e nella primavera del ’45, sono arrivati gli americani a liberarci. Ricordo solamente che ci raccomandarono di mangiar poco, perché non eravamo più abituati e avremmo potuto star male. Io pesavo 37 chili, ma non mi interessava nemmeno più di mangiare, sapevo solo che avrei potuto tornare a casa, lasciare quel posto, regno di patimenti, lacrime e disperazione. Volevo dimenticare, dimenticare tutto…ma non ne sono stato capace. Ogni anno mi ritorna in mente quel Natale di prigionia e la zuppa di bucce di patate e rape marce.”

Tutti eravamo zitti e ci era passata la voglia di far festa, intanto arrivò la zia e poggiò sulla tavola una zuppiera con la minestra di tortellini, ma prima di versarla versò sul piatto dello zio una zuppa di bucce di patate e di rape fatta a parte, che lui guardò con occhi lustri e cominciò a mangiare dopo essersi fatto il Segno della Croce. La zia spiegò che ogni anno alla vigilia, era quella la sua cena. Non ricordo a chi venne l’idea, ma abbiamo detto tutti di no alla minestra di tortellini, avremmo fatto compagnia allo zio mangiando tutti la zuppa di bucce di patate e rape, in silenzio. I tortellini sarebbero stati mangiati il giorno dopo, ma non avremmo più dimenticato la “cena speciale” dello zio Bepi.”