Archivio | 19 luglio 2013

19 Luglio, fine dei sogni

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Trentuno anni fa, in una calda mattina d’estate, non ricordo neanche se presto  o in orario più comodo, salivo le scale del Campidoglio per andarmi a sposare. Triste, come un vitello portato al macello, o su un altare per essere immolato.

I miei erano tutti emozionati per l’evento, non capendo un tubo come al solito, e continuando a fare un sacco di cagnara per “festeggiare degnamente” il matrimonio.

Me ne andavo. Mi sposavo con un uomo che amavo sì, ma nel quale non riponevo nessunissima fiducia. Un uomo del quale sapevo che avrebbe messo fine a ogni sogno, ma la situazione che lasciavo era ancora peggiore.

O forse no.

Forse avrei dovuto avere più forza e lasciarlo (e tante, tante volte avevo tentato di farlo, tornando da lui non certo perché vinta dall’amore per lui, piuttosto per la disperazione di quello che vivevo a casa).

Un mese dopo il matrimonio era finito, ma per tre anni si è trascinato, fino alla separazione. Tre anni in cui non avevo voluto lasciarlo perché era mio marito  e anche perché si trovava in una situazione di bisogno (cui sarebbe seguita un’altra situazione di bisogno, e poi un’altra ancora di maggior bisogno, in una spirale senza fine).

Un giorno suonò alla porta un ufficiale giudiziario, che ci comunicò il sequestro della casa a causa, diciamo così, di debiti da lui contratti.

Lui afferrò l’atto, venne da me, che stavo tranquillamente sdraiata sul letto a vedere un telefilm, mi prese per il collo e mi percosse selvaggiamente e ripetutamente.

Non appena mollò la presa, con una forza davvero da Hulkessa, sollevai il letto, rete, materasso, tutto, e glielo lanciai dietro per il corridoio per cui si era incamminato: lui rimase sconvolto per il mio gesto, io ero rimasta sconvolta dal suo.

Non ebbe più modo di sfiorarmi con un dito in nessun senso.