Archivio | Maggio 2012

Uomini sì

Si scherzava in ufficio sul fatto che a volte gli uomini non capiscono l’antifona e mentre tu continui a dire “Ho freddo” loro magari si tolgono la giacca e ti coprono le spalle anziché abbracciarti.

Mi sento sorprendentemente rispondere “Ma dove sono questi uomini che si levano la giacca per coprirti le spalle?”. Urca, che significa dove sono? Ovunque!

Andiamo avanti paragonando le nostre esperienza, e pare che gli uomini che ti portano i pacchi, aprono le portiere, cambiano il pneumatico, coprono le spalle con la loro giacca li abbia trovati tutti io ma, soprattutto, solo io: dov’è l’arcano?

Mia figlia, qualche giorno fa, mi ha dato un libro da leggere, scritto dal comico Steve Harvey, dal titolo provocatorio “Sono tutti uguali”.

In queste “Istruzioni per l’uso” dell’uomo – inteso proprio come maschio -, tra il serio e il faceto l’autore fa presente e giura che gli uomini vivono per farci felici, proteggerci, farci sentire che loro sono  Uomini con la U maiuscola.

Questa tesi si sposa col fatto che gli uomini sembrano disorientati dalle donne non hanno, o così dicono, più bisogno di loro. Secondo Harvey l’uomo ha bisogno di sentirsi importante, di sentire che lui è quello che guida, lui quello che risolve, e il trucco per noi donne, il trucco per una relazione appagante, sia solo il permettergli di farlo.

Vi dirò, non credo sia un’ipotesi così peregrina. Io, che sono cresciuta con una mentalità all’antica, una madre che pendeva dalle labbra di mio padre, un messaggio subliminale che gli uomini sono più forti, che gli uomini sanno, che gli uomini più di qua e più di là, forse mi sono adeguata a questo modello (le persone che mi conoscono sono pregate di non sbellicarsi dalle risate, vi assicuro che è così!) e devo dire che ho trovato uomini più “cavalieri” di quanto sia capitato alle mia amiche “donne autonome e indipendenti”: che poi, io sono più autonoma e indipendente di loro, ma si tratta di un atteggiamento mentale.

Se faccio spese, o spesa, con un uomo, è sempre lui che porta i pacchi, che li carica in macchina, e se la macchina qualche volta non mi si è messa in moto, che sia stato fidanzato, amico, conoscente o collega, sempre un uomo è stato ad armeggiare con i cavi per far ripartire la batteria o a mettersi in ginocchio a riparare l’auto: certo, intendiamoci, io non mi sono mai offerta di farlo da sola, di fronte a certi cataclismi la mia espressione di donzella indifesa in preda al panico totale è, purtroppo, assolutamente reale.

Mi ricordo una sera, sotto il diluvio universale, avevo perso uno svincolo e allungato tremendamente il percorso del ritorno a casa. A un certo punto becco una pozzanghera, ma che dico, il lago Maggiore, si alza un’onda tipo tsunami, il motore borbotta e si spegne. In curva, di notte, sotto il diluvio.

Chiamo l’assistenza, ma mi lascia in attesa, le linee sono intasate e la batteria del cellulare si sta scaricando. Disperata mi attacco al clacson: un’automobile prima mi supera, poi si ferma, fa marcia indietro e si mette davanti a me. Scende un signore che mi chiede se ho bisogno di aiuto: tremando come una foglia gli faccio presente la situazione, e lui tira fuori il telefonino, butta giù dal letto il suo elettrauto (che se ne guarda bene dal venire…), si offre di aiutarmi a spostare la macchina, in salita e sotto l’acquazzone e di riaccompagnarmi a casa. Io non so decidere, sono paralizzata dalla paura, sono stanca tremo come una foglia (che oggi, a raccontarla così, mi chiedo che cosa ci fosse di così terribile e da avere così tanta paura). Aspetta che mi calmi, mi invita a riprovare a rimettere in moto che forse le candele si sono asciugate. Provo, e la macchina miracolosamente riparte. Gli chiedo il nome, vorrei telefonargli l’indomani per ringraziarlo con un po’ più di calma, ma lui con un sorriso mi risponde che va bene così, che ha fatto solo il suo dovere.

Non vi sto a raccontare altre mille episodi del genere, anche da parte di Attila e dall’amico che vi ho fatto conoscere giorni or sono (quest’ultimo uno che si fa valere, e quindi delegato a litigare al posto mio ogni qualvolta ci sia da battere i pugni sul tavolo): ora, non sarà che noi “donne moderne” sbagliamo approccio? Non sarà vero, come dice la Francesca Reggiani in una sua famosissima parodia di “donna russa”, “donne italiane sbagliato tutto”?

Insomma, se quest’uomo in cambio del fare tutto per noi vuole solo che l’apprezziamo, perché continuiamo a castrarlo (psicologicamente…) comunicandogli in ogni modo “non ho bisogno di te”?

Non ci staremo facendo autogol?

Il portiere

Alla luce di ricordi e nostalgie, voglio pubblicare qui una storia da me già scritta su un altro blog.

Trattasi di un racconto sul portiere del mio palazzo, una persona che aveva dato la vita per il suo lavoro (e per noi condomini/inquilini), e che purtroppo non ebbe il giusto ritorno.

Anche quello della portineria è stato un costume che ha conosciuto diversi destini, prima era una figura indispensabile e familiare, poi il citofono l’ha a mano a mano sostituito, molto inefficientemente, per lo più affiancato da altrettanto inefficienti imprese di pulizie. Ora di nuovo le moderne abitazioni vantano il “servizio portineria”, però ben più asettico e “professionale” di quello dei miei tempi.  Ma torniamo al mio portiere…

Toh, anche il mio portiere si chiamava Antonio.
Dico si chiamava, perché da quando la società proprietaria del palazzo vendette tutti gli appartamenti, i parvenu nuovi proprietari decisero che di lui non avevano bisogno e che quei soldi se li potevano risparmiare.

Io invece di Antonio avevo bisogno. Quando venni ad abitare qua, la persona che c’era prima di me mi disse “Non ti devi preoccupare di nulla, per qualsiasi cosa c’è Antonio”.

Antonio prendeva le raccomandate, riscuoteva le quote condominiali, innaffiava le piante dei condomini assenti, aggiustava rubinetti, serrande e un sacco di altre cose, pagava i bollettini alla posta: si sentiva un po’ il “direttore” del palazzo, era uno che ci metteva il cuore lui.

Io, che ve lo dico a fare, un giorno ci litigai a brutto muso, misi ben bene i puntini sulle i con piglio piuttosto deciso, e quello fu l’inizio di una grande amicizia.

Ad Antonio piaceva parlare con me, e a me piaceva ascoltarlo. Lui era molto riservato, e un culto per la privacy dei condomini. Quando parlava con me, parlava di se stesso, di sua moglie, di quel figlio che voleva sistemare, che sembrava Sordi in “Un borghese piccolo piccolo”.

La moglie era la regina del gossip, con lei io cercavo di tagliare sempre corto e non l’ho mai fatta entrare dentro casa, nonostante i suoi ripetuti tentativi. Poi lei morì, e lui divenne un altro. Credo che ogni tanto, magari in occasione dello stipendio, si concedesse una qualche “signorina” ma, sostanzialmente, aveva perso ogni entusiasmo, non aveva più lo stesso vigore di prima.

I condomini si accanirono contro di lui, contro un uomo che a quel palazzo aveva dato l’anima, e dopo la pensione, mentre qualcuno di noi aveva deciso di affidargli qualche lavoretto di giardinaggio, lo sbatterono anche fuori di casa.

Ogni tanto l’ho incontrato, solo, triste, avvinazzato, e poi non l’ho incontrato più. Quando, la sera, rientro a casa, a vedere la guardiola vuota provo una stretta al cuore, come una sedia vuota alla mia tavola.

Mi manca.

Troppo noi per morire

 

Ciao, come stai?

E come va la vita senza Diemme? Mi pare bene, tu te la spassi alla grande da una parte, con la tua ciurma, io ottimamente dall’altra parte, con la mia.

Due vite separate, che non s’incontreranno più, che forse non si sono mai incontrate, eppure…

Mi ricordo mio marito, in occasione di una delle nostre prime liti, una di quelle megagalattiche che non lasciava presagire una riconciliazione, tornò dicendo “Siamo troppo noi per morire”.

Siamo troppo noi. Troppa complicità, troppa simbiosi, troppo affetto, da non potersi credere che un giorno possa morire.

Eppure muore. Muore per prese di posizione, muore perché nessuno vuole cedere e si scontrano due Titani che al grido “Ti faccio vedere io!” se le danno di santa ragione, sapendo bene dove andare a parare, sia perché si conoscono bene i propri polli sia perché, più o meno ignobilmente, fanno leva su quel sentimento l’uno nei confronti dell’altro tanto più facile da ferire quanto più grande.

E così ci si picchia e l’altro, l’altro noi, diventa il nostro più grande picchiatore, diventiamo i più grandi picchiatori l’uno dell’altro fino a che, pieni di ammaccature, fisiche e morali, all’orgoglio ma anche ai sentimenti più nobili che albergavano nonostante tutto nel nostro cuore, gettiamo la spugna, e adesso il grido è un altro, “Non ce la faccio più”.

Si separano le strade, la vita va avanti, e ognuno continua la sua, però in fondo al cuore forse ognuno dei due sente quella ferita, quelle parole incise a fuoco con su scritto “Siamo troppo noi per morire”: o forse la sente uno dei due soltanto?

 

Sono una donna metropolitana

A scrivere (e rileggere) il commento che ho lasciato da Sabby mi sono già stancata: mamma mia, ma è davvero questa la vita che faccio?

Risposta: sì (e poi chiedetemi perché finisco col gratificarmi col cibo 😥 ).

Quando io prendo l’autobus la mattina è davvero nelle condizioni che vedete, e non vi dico quanto sporco.

Ogni quanto passa? Quando vuole, se vuole. Arriverà a destinazione? Chi può dirlo, i guasti sono sempre in agguato, e a forza di aggiudicazioni al ribasso degli appalti per la manutenzione pare che al momento le vetture vengano riparate con sputo e nastro adesivo.

Dunque, la mia giornata lavorativa è ogni giorno aggravata da quattro ore circa di spostamento sui mezzi pubblici, con buona pace di Enrico che continua a ritenere che io sia un personaggio importante che si muove con l’auto blu e la scorta che le spiana il passaggio  😛

La mattina, anche in base all’orario, decido che cosa prendere: se è presto, posso andare tranquillamente in autobus e viaggiare in superficie (che sottoterra ci passo volentieri il meno tempo possibile); ma se è presto, la metropolitana mi farà arrivare con un anticipo sufficiente a fare una bella colazione.

Se è tardi, con la metropolitana ho la certezza dei tempi di percorso.

Ma se è tardi, meglio prendere l’autobus che, in mancanza di traffico, ci mette meno della metropolitana che comunque sta lontana da casa mia e devo aspettare un autobus per andarla a prendere, e quando scendo devo prendere un altro autobus per raggiungere in ufficio, quindi con l’autobus almeno la speranza di recuperare un po’ di ritardo c’è.

Discorsi l’uno in contrasto con l’altro? Certo. Ogni mattina la bilancia pende ugualmente da un lato e dall’altro, una soluzione corretta, valida per tutte le stagioni non c’è e quindi:

1) Prendo il primo mezzo che passa e in base a quello si decide il percorso.

2) Prego (ogni giorno realizzando che il buon Dio deve pensare a cose più importanti del mio percorso in autobus).

Varie cose però accomunano autobus e metropolitane: sono sporchi, zippati ed eternamente in ritardo.

Ora che si parla degli aumenti si discute tra noi passeggeri come poterci ribellare a questo sistema: già, come? Con la macchina, a parte il prezzo della benzina, il traffico che con l’autobus è parzialmente ridotto dalle corsie preferenziali e in metropolitana totalmente eliminato (o quasi), c’è il problema del parcheggio, che caro ci costa in termini di tempi e di multe poiché, a Roma, è pressoché inesistente.

Nel mio caso però la ZTL taglia la testa al toro, perché non mi è consentito raggiungere il posto di lavoro con mezzo privato.

Resterebbe la bicicletta: al di là del fiato, che forse al momento non avrei per percorrere questa quindicina di chilometri che mi separa dall’ufficio, dove la parcheggio? Impossibile a casa, impossibile al lavoro. E poi, data l’assenza di piste ciclabili, traffico impazzito e automobilisti folli, quanti giorni di vita avrei dal momento del passaggio alla bicicletta come mezzo di locomozione? Uno? Due? Tre? Di più non credo…  🙄

Uomini no?

Leggevo oggi il simpatico post pubblicato da EmmeCarla, “Uomini e no“, che ripropone l’annoso problema: perché, con tante donne a caccia di anima gemella, (anche poco gemella, eterozigote, di altra famiglia, di altra cultura, razza, nazione, religione, opinione politica e orientamento sessuale), tanti uomini rimangono soli?

Perché nonostante l’esistenza al mondo di tante crocerossine, tra cui più o meno anche la sottoscritta, tanti uomini rimangono al palo?

Quali sono i difetti che noi donne proprio non riusciamo a mandare giù?

Beh, io non posso parlare a nome delle altre, ma posso parlarvi per me. Quali sono, generalmente, i motivi del mio no (premettendo che sono molto meno fiscale di emmacarla su abbigliamento, scarpe, calzini bianchi corti e borselli vari)?

1) Uomini sposati (questo è già un off topic, gli uomini sposati non sono soli, ndr): non mi piacciono gli adulteri e sono decisamente poco portata alla condivisione, soprattutto in certi ambiti. Aggiungiamoci che odio visceralmente e disprezzo profondamente i bugiardi: amo l’uomo la cui parola sia sacra e affidabile.

2)  Uomini libertini (v. sopra).

3) Uomini avari: assolutamente insopportabili, ti fanno vergognare ad andare in giro con loro per come si comportano con terzi, ma anche con te non scherzano. Ti disgusta la loro meschineria, e l’idea che ti danno è più del pidocchio che dell’uomo.

4) Uomini con scarsa conoscenza di acqua e sapone. Una volta si diceva “L’omo ha da esse omo, l’omo ha da puzza’!”, ma a parte che vorrei sapere in quali ambienti circolava tale convinzione, direi che i tempi e il concetto dell’igiene sono, grazie al cielo, decisamente cambiati.

5) Uomini di scarsa cultura e, peggio ancora, con scarsa considerazione della cultura. Uno di questi, con figlio invece appassionato degli studi, cercando di rendersi interessante con la controproducente ostentazione del suo denaro, una volta aggiunse “Mio figlio voleva continuare a studiare, ma io gli ho detto ‘Che studi a fare, ci abbiamo la robba!’ “: la sua vita si concluderà con la frase “Robba mia, vientene con me”?

6) Ho letto recentemente su fb varie battute sul pessimo uso dell’italiano e quello inesistente del congiuntivo. Mi ha fatto ridere la battuta “Non è il tuo passato che mi turba, ma il tuo congiuntivo”: inutile dire che sono d’accordo, il momento in cui uno mi dice (ed è successo…) “Se ti metteresti con me ti cambia la vita” segna la sua fine.

7) Uomini volgari: ci sono quelli la cui vita ruota intorno al “pacco”, e fanno di tutto per notificarti quanto sono ben dotati: che dirvi, mi fanno venire la nausea. Io non ho nessun problema coi calzini corti bianchi, ma l’ostentazione/osannazione di dimensioni e consistenza dei gioielli di famiglia me li fa apparire ripugnanti, e mi sento anche offesa dal fatto che possano pensare che il mio mondo ruoti intorno a quello e che quelle siano le mie priorità.

8) Uomini iperprotettivi (leggi assillanti), di quelli premurosi che decidono che hai freddo e ti buttano uno scialle addosso anche se tu hai caldissimo e glielo hai detto 353 volte in tutte le lingue, compreso sanscrito, aramaico più il dialetto della loro mamma.

9) Uomini con l’accento del sud: abbiate pazienza, non se l’abbiano a male i miei amici del sud, ma quell’accento mi sa troppo di familiare/cameratesco, mi sa di fratello, amicone, incomparabile compagno d’ imprese goliardiche, ma fascino… no, non mi affascinano certe cadenze (d’altre parte non mi piacciono neanche i biondi con gli occhi azzurri e i perfetti lineamenti efebici!).

10) Naturalmente, non mi si avvicinino neanche per dirmi buongiorno uomini con piercing e tatuaggi vari (anche qui scatenerò reazioni, ma “de gustibus disputandum non est”!)

Insomma, a parte che oramai sarà chiaro a tutti come mai sto sola ( :mrgreen: ), voi che mi dite? Ehm, non di me, di voi…