Di tutto un po’

***

Sembrava una cifra lontanissima, e invece sono arrivati (qualche giorno fa).

Se non ci fosse stata la Fornero starei già a godermi la vita da qualche anno, ma invece c’è, anzi c’è stata, e quindi sto ancora allo sgobbo, ma non mi lamento: in fondo la mia vita è serena, il mio è un lavoro intellettuale stimolante, ricco di rapporti umani soddisfacenti, e per di più sto pure in smart working, quindi è come, in un certo senso, se fossi per metà gia in pensione.

Ventisei anni di singletudine, che non sono pochi. Non me l’aspettavo, non me lo meritavo, ma forse sono la mia esatta dimensione di libertà.

Un tetto sulla testa, una figlia tirata su con le mie sole forze, medico, autonoma: beh, direi che sono stata una gran figa!

Amici tanti, di vecchia data, collaudatissimi e straordinari, ma anche nuovi: una vita direi decisamente soddisfacente sotto l’aspetto umano e poi…

Poi la batosta del sette ottobre, la data dopo la quale la vita di nessun ebreo nel mondo è rimasta la stessa: orrore, incredulità, ma soprattutto questa tremenda sensazione che le ragioni di un intero popolo, del suo diritto a esistere, siano diventati trasparenti.

Studenti universitari in tutto il mondo manifestano contro Israele, ripetono mantra a mio avviso infondati sul piano storico, politico, umano e si vede lontano un miglio che sono organizzati dall’esterno, fomentati, basterebbe guardare quelle tende tutte uguali per non credere a movimenti spontanei.

Intanto continua la repressione delle donne iraniane, ma manifestazioni a loro sostegno non ne vedo da nessuna parte.

Francamente non vedo neanche manifestazioni a  sostegno dell’Ucraina, o del Sudan: fatevi una domanda e datevi una risposta.

Non sono la stessa dopo il sette ottobre. Non è il rigurgito di antisemitismo che mi preoccupa, io non dimentico quello che disse Mussolini: non ricordo le parole esatte, ma il succo sì, diceva che lui non aveva inventato il fascismo, lo aveva solo portato a galla dal cuore degli italiani.

Questo è il mondo in cui sono nata e questo mi tengo: un mondo con tanta inconsapevolezza, priorità diverse dalle mie, tanti individui grigi, vili, egoisti, incapaci e/o pronti a tutto per denaro o per invidia, e poi alcune persone straordinarie, sparse per tutto il globo, che lo riscattano.

Magari non farò parte delle seconde, ma ancora più decisamente non ho nulla a che spartire con le prime: direi che ho condotto una vita onorevole, che poi è quello che la rende degna (e m’accompagno da me).

Insomma, tutto sommato il bilancio personale negativo non è, e quello mondiale… beh, fuori dalla mia portata, forse pure per mia colpa, perché di volontariato ne ho fatto tanto, forse avrei potuto continuare e non l’ho fatto, forse avrei potuto fare la differenza e non l’ho fatta.

O forse sì: in fondo sappiamo che l’effetto batterfly esiste, e chissà che un mio battito d’ala, un mio piccolo gesto, non abbia indirettamente generato qualche cosa di bello in qualche angolo di questa Terra!

La Divina Commedia al Brancaccio: un’occasione sprecata

Paolo e Francesca

Non so cosa mi aspettassi esattamente, sicuramente mi chiedevo come un’opera come la Divina Commedia potesse essere rappresentata in uno spettacolo teatrale di due o tre ore.

Sono andata con curiosità e forse anche un po’ di scetticismo, ma sicuramente non prevenuta.

Ho sopportato pazientemente un inizio per me incomprensibile, aspettando che lo spettacolo decollasse e tutto prendesse forma una volta contestualizzato, ma inutilmente: un musical in cui la musica era praticamente inesistente, una lunga litania senza vigore, anche se le voci secondo me erano più che apprezzabili. Emozioni trasmesse? Zero assoluto, e sì che la Divina Commedia di materiale ne fornisce a iosa!

Anche tralasciando la storia di Paolo e Francesca (che con tutta la ricchezza scenografica e i potenti mezzi messi in campo mi sarei aspettata di vedere, quando raccontavano la propria storia, almeno intenti a leggere il libro galeotto: macché, ballettino, del tutto, a mio avviso, fuori luogo), hanno svuotato di ogni forza le vicende drammatiche di Pier delle Vigne, del Conte Ugolino, il potente richiamo di Ulisse verso la conoscenza dell’ignoto. Ogni tanto veniva citata una delle frasette stranote, da “fatti non foste a viver come bruti ma per seguir virtute e canoscenza” al “Ricordati di me che son la Pia”, senza che si capisse la storia né che risuonasse potente il motivo mortale della caduta, né la pena cui i peccatori venivano sottoposti, neanche un accenno alla pena del contrappasso (oddio, magari c’è stata, qualche parola delle lunghe litanie potrei essermela persa).

Alla fine del primo tempo commento, piuttosto infervorata, con i vicini di poltrona, anche parodiando la litania: parte è d’accordo con me, altri no, stanno godendo la rappresentazione con grande ammirazione per gli effetti speciali. Sì, ho capito, gli effetti speciali, e quelli chi li nega, ma la sostanza? Con quelli che condividevano il mio pensiero ipotizzo che chi ha realizzato lo spettacolo la Divina Commedia non l’abbia mai letta in vita sua, e che per fare lo spettacolo si sia avvalso di un Bignami, ma pure quello non l’abbia letto tutto, solo le parti sottolineate.

A un certo punto, verso la fine dello spettacolo, girano tra gli spettatori degli attori che tengono in mano delle sfere luminose. Un altro degli spettatori, evidentemente del mio stesso avviso riguardo la messa in scena, commenta: “Sono le palle degli spettatori, cadute a terra durante la rappresentazione”.

Rido, mentre questi attori salgono sul palco, mettendosi in ordine con queste sfere luminose in mano, al che io aggiungo al suo commento: “Ufficio oggetti smarriti: gli spettatori le cui palle sono cadute a terra sono pregati di venirle a recuperare”.

Per me è stata l’ennesima conferma di quello che penso da sempre, che quando abbondano gli effetti speciali spesso vengono usati al posto di una sostanza assente. Ricordo un altro spettacolo, di tutt’altra consistenza, praticamente il monologo di un unico attore con qualche foglio in mano: trainante, commovente, emozionante, fiato sospeso fino all’ultimo, e a conclusione uno scroscio di applausi che non si fermava più: esattamente il contrario di quanto successo con questa deludente Commedia.

Di dove sei?

Vorrei unaa vostra opinione su una situazione imbarazzante in cui mi sono trovata, ahimé, oramai parecchie volte (diciamo tre o quattro).

Io ogni tanto sono stata all’estero, ci ho anche vissuto, e alla domanda “Di dove sei?” ho sempre tranquillamente risposto che sono italiana. Sì, è vero, a volte, mi riferisco principalmente al 1978, mi sono sentita rispondere “Ah, Italia, Brigate Rosse!”, ma al massimo ho trovato l’osservazione retorica e banale, mai un’offesa nei miei confronti.

Ora, la prima volta è successo per telefono, con la moglie di una persona importante con cui era in ballo una questione lavorativa. Mi telefona dunque questa signora, che ogni due per tre sottolinea che è medico (e stic…?): cioè, voglio dire, è una cosa assolutamente normale, che nel discorso può venir fuori e pure essere interessante, ma se una comincia a dire: “Buongiorno, sono la moglie di Tizio e sono medico, telefono per quella questione di mio marito, chiamo io perché ho più pratica con la materia anche se faccio un’altra cosa (sono medico), mi dica quando posso venire, fuori dall’orario di studio perché sa, sono medico…” comincia a diventare un po’ pesante.

Dunque, la signora parlava un italiano ineccepibile, ma un certo punto se ne esce con una parola – non ricordo quale – che mi fa pensare che sia straniera. Non ricordo quale fosse la parola, ma avete presente quelle che hanno una declinazione/coniugazione irregolare ma che un italiano non sbaglierebbe mai (per esempio, un italiano non direbbe mai “io ando” anziché “io vado”), quindi mi viene la curiosità e le chiedo: “Ma lei è straniera?”: non l’avessi mai detto! Si irrigidisce e risponde stizzita “Perché me lo sta chiedendo?”. Io tranquillamente le spiego che era per una questione linguistica, che sentendola parlare mi pareva di aver capito che non fosse di lingua madre italiana e mi era venuta la curiosità di saperlo e lei risponde secca “Ah, è per questo. No, non sono italiana”. A me sarebbe venuto spontaneo rispondere “No, non sono italiana, sono… quello che era, francese, inglese, americana, iraniana, indiana, marocchina, qualunque cosa fosse e invece no, liquida la questione con un lapidario glaciale “No, non sono italiana”.

Ora, siccome me ne importava il giusto, cioè niente, ho continuato con la questione di lavoro, portata regolarmente a termine, e non ho più detto una sola parola che non riguardasse l’argomento in essere: io sono una persona molto socievole, sono la prima ad attaccare bottone, ma se tu poi questo bottone non lo vuoi non è che io te lo imponga, figuriamoci!

Anni dopo vado con mia figlia in un ristorante. Viene un cameriere a prendere l’ordine, si scusa perché non parla bene italiano, aggiunge che è in Italia da poco. Io, chiaramente disponibilissima a impiegare più tempo a farmi capire, magari indicando le pietanze sul menù, gli rispondo “Non si preoccupi. Di dove è?”: voi non avete idea, a momenti si consumava una tragedia, ha fatto una scenata che temevo mi rovesciasse il tavolo addosso!

Io “Stia calmo, tranquillo, non voglio sapere niente, va bene così”. Lui ha continuato a urlare, se n’è andato stizzito, abbiamo passato il resto della cena con lui che quando portava le pietanze le tirava tipo osso al cane, occhi bassi e grugnendo, una situazione davvero tesa.

A fine cena si avvicina tutto dolce a chiedere se era andato tutto bene. Io, più che mai sconcertata, gli rispondo rigida: “Bene, grazie”.

Paghiamo e mentre stiamo uscendo ci corre dietro, chiede scusa. “Ok,” rispondo io tra l’asettico e il perplesso “tranquillo, va tutto bene”. Insiste, chiede se davvero lo perdono e se siamo amici, della serie “se non sono matti non ce li vogliamo”. Ribadisco che non ci sono problemi e va tutto bene e me ne vado, pensando ovviamente di non tornare, almeno a breve: abbiate pazienza, se vado a cena fuori è per passare una serata in santa pace e tranquillità, non per stare in tensione!

Certo, immagino che dietro quella reazione ci sia tanto dolore, una vita difficile, probabilmente anche tanti episodi di razzismo, pregiudizio, ma non puoi fare un processo alle intenzioni! Quando tu vieni da un paese che tu pensi, a torto o a ragione, sia giudicato negativamente, puoi temere che quando lo vengono a sapere possano nutrire preconcetti, ma a quel punto posso capire che tu stia sul chi va là, non che se ti chiedono di dove sei tu attacchi e in modo pure violento come se ti avessero insultato e percosso!

Io appartengo a una minoranza, e appartengo a una minoranza spesso discriminata, ma non ho dato MAI e dico MAI per scontato che la persona davanti a me avesse dei pregiudizi, non ho MAI attaccato nessuno per avermi chiesto se ero questo o quello e a volte, credetemi, il pregiudizio c’era eccome, ma io ho reagito – e mai violentemente, semmai con freddezza o sarcasmo – quando hanno manifestato il preconcetto, non quando hanno posto la domanda!

Mia figlia dà ragione a loro e sostiene che io debba farmi gli affari miei e smetterla di chiedere alle persone di dove sono. Per me chiedere a una persona di dove è è come chiedere se ha figli, che lavoro fa, insomma, un’informazione qualsiasi di quelle che ci fanno conoscere, senza pregiudizio alcuno. Significa stabilire un contatto, aprire un dialogo. Le mie domande sono una curiosità umana, sociale, antropologica. Mia figlia – altra generazione, altra mentalità – prontamente obietta: “Mamma, generalmente le persone a cui viene chiesto di dove sono non si trovano davanti un antropologo ma un razzista!”.

Ma è davvero così brutto il mondo? Davvero devo “farmi gli affari miei che campo cent’anni”, infischiandomene del prossimo, di chi è, da dove viene, come ha vissuto, cosa sogna, cosa spera, cosa ha sofferto, quando ha gioito? Davvero non si usa più conoscersi, davvero “non sta bene” parlarsi?

Adesso capisco anche perché tante coppie si lasciano: una mia amica, che aveva una relazione a distanza, è stata lasciata perché lui ne ha trovata una che abitava più vicino ed era una situazione più comoda. Ma stiamo parlando di un paio di ciabatte o di una vestaglia? Di un appartamento? Di un’automobile? Cioè, io per te non sono Anna, o Maria, o Francesca, con la mia storia, il mio carattere, la mia identità, ma sono solo “una”, sostituibile con “una più comoda”?

Esiste più il conoscersi e l’amarsi e apprezzarsi per quello che si è? Io sono allibita.

Confido che al mondo ci sia ancora tanta gente che abbia nei confronti del prossimo un interesse umano e, come dire, “personalizzato”!

 

ZeroCalcare, tra Israele e Lucca Comics

Trovate l’intera serie di vignette un po’ ovunque sul web, io qui ne riporto solo una, ma v’invito a leggerle per capire che è stata una decisione sofferta. Frutto secondo me di una visione ingenua e parziale, ma sono certa in buona fede.

**

Ho letto l’appassionato post di ZeroCalcare sulla sua decisione di non partecipare al Lucca Comics a causa del Patrocinio di Israele e lo capisco, giuro che lo capisco. Non lo condivido ma lo capisco.

Una decisione sofferta, ragionata ma che, nonostante il ragionamento, forse ha lasciato qualche dubbio in chi l’ha presa, non sicurissimo che fosse quella giusta, ma in dovere di prenderla per un principio di solidarietà umana che capisco, giuro che lo capisco.

E’ il giudizio di un fumettista, non di uno statista o di un esperto di politica internazionale: praticamente il giudizio di uno che, al pari delle aspiranti miss intervistate, vuole la pace nel mondo. Nobile, nobilissimo. Ma rimane una dichiarazione d’intenti senza seguito, perché pressoché impossibile da realizzare: l’umanità, da quando si è affacciata al mondo, non c’è mai riuscita.

E ora vi dico perché secondo me sbaglia.

Sbaglia perché una manifestazione come Lucca Comics dovrebbe lasciare la politica fuori dalla porta, ed essere anzi proprio un momento di dialogo universale, così come la musica e lo sport.

Sbaglia perché, in nome del sentimento di solidarietà universale che dichiara di provare, non ha fatto nulla per manifestare vicinanza al popolo israeliano per i disumani massacri compiuti il 7 ottobre dai terroristi di Hamas.

Sbaglia perché è costernato per la crisi umanitaria a Gaza (penso che lo siamo tutti), ma non dà un’alternativa al popolo israeliano che questa guerra non l’ha cercata e non l’ha voluta.

Sbaglia perché non ricorda che Israele la striscia di Gaza ai palestinesi l’ha consegnata, con tanto di infrastrutture – come le serre – che avrebbero potuto utilizzare per una fiorente attività economica, e che invece hanno distrutto. Che per ridare quella terra, in nome della pace, Israele ha evacuato i propri cittadini, che probabilmente a tutt’oggi ne pagano le conseguenze, perché Israele in fondo ha un grande sogno: che i palestinesi vivano in santa pace, ed è il contrario del “sogno” dei palestinesi, che è quello che Israele scompaia dalla faccia della terra.

Sbaglia perché che cosa avrebbe voluto da Israele, che non si difendesse o che riuscisse a fare una guerra “pulita, “giusta”, in cui a morire fossero solo i cattivi?

Beh, caro ZeroCalcare, le do una notizia: la guerra giusta non esiste. La guerra è una merda, la guerra è la sconfitta dell’umanità, la guerra è dagli albori della storia che miete vittime innocenti: non è possibile condurre una guerra giusta e pulita.

La guerra bisognerebbe semplicemente non farla, ma se si è attaccati difendersi è un dovere, difendere i propri cittadini, i propri figli, è un dovere cui solo un popolo autolesionista si sottrarrebbe, e non me ne viene in mente nessuno che si sia volontariamente consegnato – e consegnato i propri figli – a un carnefice senza lottare.

Nelle guerre muoiono gli innocenti. Per estirpare un cancro si danneggiano – purtroppo – anche cellule e tessuti sani. Tutti vorrebbero che ci fosse un altro modo, ma non c’è. Tutti studiano e s’impegnano per trovare un altro modo, ma non c’è. Si cerca di limitare i danni, ed è per questo che l’esercito d’Israele sta attaccando via terra: sarebbe molto più facile e sicuro continuare a bombardare fino a radere al suolo tutto, e invece si rischia la vita per andare a ricercare ad uno ad uno i terroristi, risparmiando il più possibile i civili, comunque invitati più volte ad evacuare (“per andare dove?”, chiederete voi, e me lo chiedo anch’io, ma tant’è).

I miei genitori mi parlavano dei bombardamenti degli americani, e gli americani erano alleati. Gli americani erano venuti a liberarci. Ma bombardavano.

Nessuno pose loro limitazioni nell’attacco alla Germania, nessuno si preoccupò delle vittime innocenti, che pure c’erano.

La guerra è straziante, ma ZeroCalcare dimentica che Israele una guerra non l’ha mai iniziata, e che è solo costretta a combatterle per la propria sopravvivenza.

ZeroCalcare dimentica che Israele è un paese che lotta per la vita, al contrario dei suoi avversari, che hanno fatto del martirio una religione.

ZeroCalcare avrebbe fatto bene ad andarci al LuccaComics. Avrebbe teso una mano alla pace. Non avrebbe messo benzina sul fuoco.

Perché io non accuso ZeroCalcare d’antisemitismo, ma d’ingenuità sì. Di una profonda, pericolosa e controproducente ingenuità.

Uso e abuso di internet: facilitazione o cappio al collo?

 

Non so se sono più furibonda o più avvilita.

Quando ha incominciato a diffondersi internet, il mondo ha avuto nuove possibilità: accedere alle informazioni e comunicare in maniera più veloce e globale.

In un primo momento i cellulari erano un lusso: mi ricordo i primi, che pesavano un quintale e la cui batteria durava dieci minuti, costavano intorno al milione e mezzo ed era veramente uno strumento per pochi priviligiati, da far morire d’invidia i comuni mortali.

I prezzi poi si sono abbassati, l’uso dei telefonini diffuso, molti lo hanno comprato senza una vera e propria necessità, semplicemente perché lo avevano tutti.

Comodo, davvero comodo non dover cercare una cabina. Comodo, davvero comodo a casa di altri non dover chiedere se per favore potevamo fare una chiamata dal loro telefono.

Poi sono arrivati gli smartphone/iphone, anch’essi prima per una ristretta cerchia di privilegiati e ora a disposizione anche dei mendicanti in strada e degli immigrati che si riversano sulle spiagge, nudi, affamati, assetati, torturati, e con in mano l’ultimo modello di smartphone (anche se intravedete una lieve nota polemica, andiamo oltre).

Rechiamoci alle Poste. Due persone avanti a te, pensi di fare presto: macché! A un certo punto comincia a entrare e scavalcarti una persona, due, tre, quattro… tutte vantano un appuntamento preso on line per cui hanno su di te la precedenza (ma una cassa dedicata a loro no? O almeno, una dedicata agli altri!).

Colonnine elettriche per la ricarica delle automobili, ammetto che mi faccia un po’ effetto un distributore senza gestore, ma come si ricarica? Chiedo lumi e mi dicono: c’è da scaricare una app, la colleghi al conto bancario e blablablablablà.

Obbligatorio avere uno smartphone per rifornire l’automobile? E per lavorare? Danno per scontato che abbiamo la rete (oggi ce l’hanno tutti…), che abbiamo lo smartphone/iphone (oggi ce l’hanno tutti…), e giù ad abusare dei nostri strumenti od obbligarci ad averli, perche oggi, senza “aver scaricato l’app” non campi.

Io sono dell’idea che certi strumenti dovrebbero essere un’opportunità in più, non l’unica strada percorribile. I nostri poveri anziani devono per forza avere un figlio o nipote o altro che li aiuti, altrimenti non possono provvedere a se stessi (provate ad andare semplicemente all’INPS e mettervi in fila).

Una volta un tizio spiegava: tu percorrevi la tua via, il tuo sentiero impervio, magari a dorso di un mulo, era scomodo però arrivavi a destinazione. Poi ti hanno messo a disposizione, gratuitamente, una bella strada dritta e asfaltata. Tu scegli di servirtene, dopodiché ti chiedono un prezzo esoso per continuare a usufruirne e tu non puoi tornare indietro, e non solo perché il mulo l’hai venduto per comprarti la macchina, ma soprattutto perché il sentiero, abbandonato a se stesso, è ormai diventato una sterpaglia non più percorribile.

Ci sono persone, come me per esempio, che per pagare le bollette vanno alle Poste, perché ancora preferiscono il contatto umano e invece no, dobbiamo diventare macchine. E quelli cui, per motivi legali, è stata interdetta la possibilità di avere un conto in banca che devono fare, suicidarsi? Andare a vivere in una caverna sul cucuzzolo di una montagna?

Vivere ai tempi di internet deve rappresentare una vita più facile e più ricca di possibilità, non una mannaia per i meno tecnologici (o semplicemente più desiderosi di un rapporto umano).