Archivio | 23 settembre 2013

“Perché lo fai?”

mano colomba cuore

Raccontavo a una mia amica che ero andata sul blog di tale persona e…

…e la mia amica mi ferma, chiedendomi “Perché ci vai?”.

Rispondo che, insomma, è uno dei blog che seguo e lei “Ma non avevate discusso? Non era chiusa la questione?”.

E io ancora che no, non ero io ad avere discusso, per me non era cambiato niente.

“Ma insomma, neanche stare lì a darle soddisfazione, sembra che…”.

Ecco, se io voglio bene a una persona, se c’è un’amicizia – sia pure con un’attuale battuta di arresto – a me non importa niente di tenere il punto o di fare o non fare la parte di questo e di quello, non ho complessi e nessuna velleità di dover dimostrare che sono forte forse perché, probabilmente, lo sono davvero e tanto basta.

“Ma sembra che uno sia lì a chiedere l’elemosina!”, ribatte lei. Ecco, questo è un complesso che può avere un povero, non un ricco. Ricordo un mio amico, un fusto meraviglioso, che si offrì di tenermi l’ombrello, stucchevolmente rosa a fiorellini. “Ma dai”, gli dissi, “che vai in giro con l’ombrellino rosa?” e lui, con uno splendido sorriso, “Hai paura che mi scambino per femmina?”. No, decisamente non c’era rischio.

Diciamo che sono in quella posizione di forza. Mi va bene il blog, di amici, tanti e buoni, ne ho a iosa, e quindi mi sento sì quella che tende la mano, ma per offrire un appiglio, non per chiedere la questua, e complessi davvero non ne ho.

“Non può capitare” insisto io “che una persona sbrocchi, maltratti chi non lo merita, e poi si renda conto di quello che ha fatto e non le regga la faccia di ripresentarsi?”.

Su questo la mia amica è intransigente e, francamente, credo che lei abbia ragione. Sostiene che sì, può darsi che uno sbrocchi, può darsi che faccia una sparata fuori luogo, ma poi, a freddo, col senno del poi, quando si rende conto di quello che ha fatto, le sue responsabilità bisogna che se le prenda, e il primo passo deve essere il suo.

Ho sentito due madri, di generazioni diverse, dire dei propri figli “Io sono la madre e, qualunque cosa dica, qualunque cosa faccia, pure se mi sputa in faccia e dà i calci sui denti, io non lo abbandono”: ora, se questo ragionamento, in una madre nei confronti di un figlio, può venire accettato, in nome dell’amore supremo di una madre, perché quest’amore supremo – nel senso umano, non sentimentale – uno non può provarlo nei confronti anche di altre persone?

La mia amica mi ha portato come esempio alcune sue esperienze, in cui l’esito però è stato chiudere e basta, e sono rimasti come dei sospesi nella sua vita, dei dolori, piccoli o grandi, che stanno sempre lì, nascosti in un angolo della mente e del cuore, e che il tempo non ce la farà a neutralizzare: e allora, il mio metodo sarà sbagliato, ma anche questo non porta risultati, né recuperando l’amicizia né lenendo il dolore!

Francamente, io mi sento corazzata, se le persone a cui tendo la mano me la lasciano sospesa in aria non è che mi senta umiliata e ferita, sono più nell’ordine di idee “Ritenta ancora, sarai più fortunata!” e quando, magari dopo anni, getto la spugna, quel dolore in un angolo del cuore ha molte più possibilità di scomparire davvero, insieme alla persona però, a ogni ricordo e ogni rimpianto, e stavolta sì irreversibilmente!