Archivio | 15 febbraio 2016

Mamma, mi racconti la rivoluzione?

Oggi mia figlia mi ha chiesto di Che Guevara, di quando uscì la canzone Hasta Siempre, di come è morto, e poi mi ha rimproverato di non raccontarle mai di quegli anni di protesta in cui io ho vissuto né di quel clima da rivoluzione che tanto l’affascina (con “I miserabili” e i ragazzi delle barricate ha messo la mia pazienza a dura prova!).

Non è la prima volta che me lo chiede ma… boh, il racconto non m’ispira.

Intanto, perché all’epoca la mia lotta era per andare a scuola, che i miei non volevano, e per procurarmi i libri. Il giorno andavo a scuola, il pomeriggio lavoravo, la notte studiavo, per il resto fronteggiavo ciò che sapete, e quindi tanti bollenti spiriti rivoluzionari non ce l’avevo.

Anyway, la mia scuola era di sinistra e quindi, pur non avendo io mai abbracciato alcuna fede politica, i discorsi che sentivo erano quelli, i miei amici erano di quelle bande e quella era l’aria che respiravo. Considerando poi il tributo che la mia famiglia ha pagato al fascismo (al nazismo…), che mi ha portato a respirare in casa aria decisamente antifascista, nella mia testa, con quel filino di condizionamento qua e là nonché il nonno partigiano, i comunisti erano i buoni e i fascisti i cattivi.

Peccato che nella mia scuola ci fossero alcuni ragazzi di destra, carini, educati, studiosi, e già la cosa non mi suonava (ma come, non dovevano essere brutti e cattivi?), e dall’altra i “compagni” mi facevano ostruzionismo perché non partecipavo a tutte le manifestazioni, fino ad arrivare a minacciarmi fisicamente (ma come, non erano quelli democratici? Non erano quella della non violenza, quelli del peace and love?).

Insomma, qualcosa non mi tornava: primo sciopero “per la libertà e la democrazia” e io, ragazzina ingenua, mi ci buttai a pesce. Seconda volta, manifestazione “per la libertà e la democrazia”, e già incominciai a pormi delle domande. Alla terza volta chiesi: “Insomma, siccome siamo sempre per la libertà e per la democrazia, che facciamo, a scuola non ci veniamo più? O mi spiegate l’utilità di queste manifestazioni, o mi spiegate programmi e obiettivi, oppure io me ne vado in classe”.

Fu lì che venni minacciata, alzarono una spranga dicendo che se fossi entrata me l’avrebbero data in testa e io, con le gambe che facevano JamesJames, col cuore stretto ma simulando piglio sicuro ed espressione ostentatamente impavida, noncurante e altera, entrai.

Fu quello il momento in cui alle parole di democrazia e libertà non credetti più, e non è che la vita mi abbia dato torto: ancora oggi, per la questione dei diritti ai gay, ho sentito quelli che “lottano affinché tutti abbiano diritti e libertà” raccontare che andavano a picchiare le Sentinelle in piedi perché negavano agli altri la libertà d’espressione.

E sì, e anche che la coerenza non è di questo mondo lo imparai subito, quando i capetti sobillavano quelli che avevano bisogno di recuperare un’insufficienza sostenendo che la causa era più importante della loro promozione, ricattandoli psicologicamente, ma poi erano i primi a entrare se il voto da recuperare era il loro, o fosse pure solo per aumentarlo!

Però una volta, recentemente, ne parlavo con un amico, comunista irriducibile, che alle mie rimostranze e manifestazioni di pensiero non proprio sinistrorse replicava con molta tristezza e rammarico: “Tu non sai com’era importante lottare per la giustizia sociale, pensare di poter fare qualcosa per cambiare le sorti dei più poveri e dei più sfortunati!”. Si sentiva fallito su quel punto, ma il suo non era affatto un fallimento, poiché lui era sempre rimasto coerente con le sue idee e sì, secondo me, il mondo un po’ migliore lo aveva reso, e le sorti di qualcuno le aveva risollevate, ma sicuramente c’era stato il fallimento dell’aver creduto nei “compagni”, nella loro linearità, coerenza, coraggio, buona fede (come cantava Venditti, “ti sei salvato o sei entrato in banca pure tu”, magari con la raccomandazione, e non solo raccomandazione, diciamo con quella di qualunque partito fosse in grado di darla).

Comunque, per quel poco tempo che ci ho creduto, è stato bello, e sì, conosco la carica che dà la lotta, il pensare che puoi cambiare il mondo e contribuire a renderlo più bello, più giusto, più pulito… e no, nella sinistra non credo, ma sentire la canzone El pueblo, e ricordarmi di quando la cantavo a squarciagola nei cortei, felice di fare la differenza, mi fa sempre venire i brividi per l’emozione.

Seguiti dagli occhi bassi e da una lacrima, di rassegnazione e sconfitta. O forse solo di delusione.