Ci si perde.
Ed è triste che la freddezza, il voltare la faccia senza girarsi mai indietro, l’alzare boriosamente e altezzosamente i muri accada non tra due estranei, ma tra due persone che si sono amate. Poi tu sei venuto meno, e hai provato pure i tuoi sensi di colpa (piucchealtro un po’ di rabbia per non essere riuscito ad avere questo e quello), ma mi pare che tutto sommato li abbia superati bene.
L’avevo capito tanto squallore, l’avevo capita anche una certa bassezza, di pensieri intendo, e forse per quello avevo alzato la guardia. Forse per quello non mi sono mai fatta in quattro, e anche perché avrei voluto che ci mettessi un po’ del tuo: ma non ce l’hai mai messo.
Pavido. Talmente pavido che una delle mie amiche la tua donna la chiama sarcasticamente “Fortunella”, per dire: “Capirai, l’ha fatto grosso l’affare!”. T’ha sempre giudicato uno smidollato lei, un merluzzo bollito (nota per i miei lettori: che sia chiaro, non è il merluzzo surgelato di Martina messo al microonde! 😛 ).
Poi chiedi l’amicizia, che mica mi va tanto di avere, perché io sono ancora presa, e sono a terra, mentre tu hai i piedi bene in caldo (insomma, i piedi… ). Mi ci sono pure sforzata però, t’avevo chiesto solo di non parlarmi di lei, ma tu era proprio quello che volevi fare.
Chissà come sei messo adesso, questo sì, devo ammetterlo, mi piacerebbe saperlo, ma pazienza, temo che dovrò sopravvivere senza.
Insomma, i rapporti si sono diradati, ma io sono di quelle che i contatti li mantiene con tutti, magari solo per gli auguri di compleanno e per Natale, una telefonata di un minuto, a me sembra una cosa carina.
A te evidentemente no. Però potevi dirlo prima, perché le tue parole precedenti avevano sostenuto sempre il contrario ma le tue parole, si sa, non significano proprio niente (non sei mai stato bravo con le parole, né a pronunciarle e, dio mi perdoni, neanche a scriverle senza troppi strafalcioni).
Ecco, a me di tutto questo non importa niente. Io mica ce l’ho con te, io ce l’ho con me.
Per tutto lo spago che t’ho dato. Il sentimento che ci ho messo. La fiducia che t’ho dato, quando fin dal primo momento mi ero stupita per il tuo tirarti indietro dopo avere messo in moto tanti meccanismi. Probabilmente non ti rendevi conto: ma come facevi a non renderti conto, hai qualche sintomo di demenza precoce, sei caduto dal seggiolone di piccolo, un debito d’ossigeno al momento del parto?
Ecco, sì, è con me che ce l’ho. Perché io poi ci sono stata male, tanto, e mia figlia ne ha pagato i conti. Non ero più io, e soprattutto non ero più in grado di fare nulla. Sono stati mesi terribili, non riuscivo ad alzare testa. Lo capivo che non era giusto, che non c’erano i presupposti per così tanto dolore, però, che devo fare, se stavo male stavo male.
Ora sto bene, benissimo, è passato tanto tempo. Però ogni tanto ti penso, e oramai, ad acque decantate, persino con distaccato affetto. Tanto distaccato da sperare che tu sia felice e contento, accanto a lei o a un’altra, che magari abbia una famiglia, dei figli, insomma, mi faceva piacere sapere come stavi.
E tu mi hai risposto così, così male intendo, o così per niente, senza neanche vergognarti un po’ (un po’? Avresti dovuto vergognarti molto, ma non pretendevo tanto).
Bene, come si dice, il torto e la ragione non stanno mai da una parte sola, e tu hai sempre avuto su una cosa ragione da vendere: quando dicevi che ero troppo per te.
Che non capivi che cosa ci trovassi in te.
Ragione da vendere e, infatti, è di me che non mi fido.