Archivio | novembre 2010

L’ospizio

Il post di Arthur mi ha fatto venire in mente tante cose.

Tanto per cominciare, io non avevo idea che gli ospizi fossero stati chiusi. Io li detesto con tutte le mie forze, mio nonno diceva che si sarebbe ammazzato piuttosto che andare in un ospizio, e io la penso esattamente nello stesso modo.

Ora però, che mi dicono che sono stati messi fuorilegge, mi sorge qualche perplessità: eh già, perché chiudere i manicomi non ha eliminato i malati di mente, ma ha gettato sulle spalle dei familiari un peso insostenibile, in alcuni casi si può dire che abbia ucciso chi si è ritrovato ad occuparsene, mentre lo Stato, che ve lo dico a fare, ha sempre latitato; chiudere le case chiuse non ha eliminato la prostituzione, ma ha buttato queste povere ragazze in mezzo alla strada e, a parte la questione “decoro” che alcuni sollevano, ha moltiplicato loro il rischio di aggressioni e a tutti – clienti e mercenari – quello di malattie.

Ora, similmente, con la chiusura degli ospizi non è stato eliminato il problema dell’assistenza agli anziani, né è stata fornita una soluzione alternativa.

E allora, tutto questo, che senso ha?

Lei Fortunella: e io?

Ci si perde.

Ed è triste che la freddezza, il voltare la faccia senza girarsi mai indietro, l’alzare boriosamente e altezzosamente i muri accada non tra due estranei, ma tra due persone che si sono amate. Poi tu sei venuto meno, e hai provato pure i tuoi sensi di colpa (piucchealtro un po’ di rabbia per non essere riuscito ad avere questo e quello), ma mi pare che tutto sommato li abbia superati bene.

L’avevo capito tanto squallore, l’avevo capita anche una certa bassezza, di pensieri intendo, e forse per quello avevo alzato la guardia. Forse per quello non mi sono mai fatta in quattro, e anche perché avrei voluto che ci mettessi un po’ del tuo: ma non ce l’hai mai messo.

Pavido. Talmente pavido che una delle mie amiche la tua donna la chiama sarcasticamente “Fortunella”, per dire: “Capirai, l’ha fatto grosso l’affare!”. T’ha sempre giudicato uno smidollato lei, un merluzzo bollito (nota per i miei lettori: che sia chiaro, non è il merluzzo surgelato di Martina messo al microonde! 😛 ).

Poi chiedi l’amicizia, che mica mi va tanto di avere, perché io sono ancora presa, e sono a terra, mentre tu hai i piedi bene in caldo (insomma, i piedi… ). Mi ci sono pure sforzata però, t’avevo chiesto solo di non parlarmi di lei, ma tu era proprio quello che volevi fare.

Chissà come sei messo adesso, questo sì, devo ammetterlo, mi piacerebbe saperlo, ma pazienza, temo che dovrò sopravvivere senza.

Insomma, i rapporti si sono diradati, ma io sono di quelle che i contatti li mantiene con tutti, magari solo per gli auguri di compleanno e per Natale, una telefonata di un minuto, a me sembra una cosa carina.

A te evidentemente no. Però potevi dirlo prima, perché le tue parole precedenti avevano sostenuto sempre il contrario ma le tue parole, si sa, non significano proprio niente (non sei mai stato bravo con le parole, né a pronunciarle e, dio mi perdoni, neanche a scriverle senza troppi strafalcioni).

Ecco, a me di tutto questo non importa niente. Io mica ce l’ho con te, io ce l’ho con me.

Per tutto lo spago che t’ho dato. Il sentimento che ci ho messo. La fiducia che t’ho dato, quando fin dal primo momento mi ero stupita per il tuo tirarti indietro dopo avere messo in moto tanti meccanismi. Probabilmente non ti rendevi conto: ma come facevi a non renderti conto, hai qualche sintomo di demenza precoce, sei caduto dal seggiolone di piccolo, un debito d’ossigeno al momento del parto?

Ecco, sì, è con me che ce l’ho. Perché io poi ci sono stata male, tanto, e mia figlia ne ha pagato i conti. Non ero più io, e soprattutto non ero più in grado di fare nulla. Sono stati mesi terribili, non riuscivo ad alzare testa. Lo capivo che non era giusto, che non c’erano i presupposti per così tanto dolore, però, che devo fare, se stavo male stavo male.

Ora sto bene, benissimo, è passato tanto tempo. Però ogni tanto ti penso, e oramai, ad acque decantate, persino con distaccato affetto. Tanto distaccato da sperare che tu sia felice e contento, accanto a lei o a un’altra, che magari abbia una famiglia, dei figli, insomma, mi faceva piacere sapere come stavi.

E tu mi hai risposto così, così male intendo, o così per niente, senza neanche vergognarti un po’ (un po’? Avresti dovuto vergognarti molto, ma non pretendevo tanto).

Bene, come si dice, il torto e la ragione non stanno mai da una parte sola, e tu hai sempre avuto su una cosa ragione da vendere: quando dicevi che ero troppo per te.

Che non capivi che cosa ci trovassi in te.

Ragione da vendere e, infatti, è di me che non mi fido.

Pensieri da abbandonare…

Quando non c’è più nulla da fare, a che pro alimentare il dolore? Per forza bisogna andare avanti, per forza.

Non dico distruggere le foto, dar fuoco alle lettere, ma neanche stare li a guardare le une, a leggere le altre, ad alimentare ricordi che possono solo far male.

A che serve la nostalgia, se recuperare non è possibile?

La nostalgia serve a far pace col passato, addolcire i ricordi, perdonare i torti in nome delle cose belle che un tempo ci ha dato, che un rapporto ci ha regalato, ed è un ponte che unisce.

Ma se l’altra sponda del fiume è palude, se questo ponte non ha terreno cui agganciarsi, a che pro farsi del male?

Quando tutti i materiali usati, tutte le strutture, tutte le scuole di pensiero sono state passate in rassegna, a che pro tenere impegnata la mente in pensieri e ricordi che fanno solo male?

Premo con forza il tasto “Cancellare ricordo”, chiudo gli occhi, e aspetto di riaprirli su un mondo che non parli di noi.

Cialtroni!

Forse non è giusto trattare male gli operatori dell’help desk, povere creature, magari laureate con 110 e lode, mandate allo sbaraglio a svolgere, impreparati, un lavoro che non è il loro, ma questo passa il convento.

Fa presto chi sta sopra a dare disposizioni di dire all’utente questo e quello, laddove l’utente, il cliente, pare sia un idiota indegno di qualsiasi cura e di qualsiasi rispetto.

Il cliente deve tirar fuori soldi, punto, dall’altra parte un venditore di fumo che lo deve in qualche modo tener buono e intortare (e neanche più di tanto).

Mentre pensavo ai call center, dopo aver discusso con un operatore che menava il can per l’aia, il discorso si è riproposto in ufficio a proposito di agenti immobiliari. Racconta una collega che le hanno riferito che li preparano con un corso di un mese, impongono loro giacca e cravatta e scarpa lucida, e poi via: e se lavorano coi piedi (forse per questo le scarpe lucide?), se vendono ciò che non si sarebbe potuto, se dall’altra parte ci sarà chi piange la perdita dei risparmi di una vita, a loro poco importa: abbiamo un sistema economico immorale, e non ditemi che un sistema economico deve essere per forza immorale, perché non ci credo.

Si può anche lavorare bene, e i soldi guadagnarseli onestamente.

Si può avviare un’azienda fiorente, ed essere a posto con la propria coscienza.

Il cliente può essere il nostro pane, e portarci fior di soldoni, a maggior ragione se curato, rispettato, ben servito.

Pensiamo che abbattere l’albero dei fichi per far prima a mangiarsi i fichi sia una mossa astuta, ma è solo distruzione.

Pensiamo che dobbiamo, che “teniamo famiglia”, che se non lo facciamo rischiamo il posto di lavoro, ci diamo come alibi che tanto se non lo faremo noi lo farà qualcun altro, e vendiamo la nostra integrità.

Ci danno degli obiettivi da raggiungere, che so io, per esempio in banca, devi vendere questi titoli, ne devi vendere un tot se vuoi “raggiungere gli obiettivi”, e se sono una fregatura tu inganni pure tua madre, perché senti che “devi”, le prime volte sentendo forse un po’ di fastidio, un vago senso di rimorso, una vocina della coscienza che si fa sentire e contesta, ma poi a tutto ci si abitua: cialtroni!

Beh, vi faccio una comunicazione sconvolgente: non siamo obbligati.

Perderemo il posto di lavoro e dovremo andare a raccogliere i pomodori?  Bene, almeno vivremo all’aria aperta. Dimentichiamo troppo spesso che la società siamo noi, e questo sistema sta prendendo piede perché noi lo avalliamo, perché noi ci raccontiamo che “funziona così”.

Funziona così perché noi accettiamo di essere parte di questo ingranaggio. Vendiamo per un tozzo di pane la nostra dignità. la nostra onestà, la nostra professionalità, la nostra società, il mondo futuro nostro e dei nostri figli.

Ripeto, non siamo obbligati: ovviamente c’è un prezzo da pagare, che in un primo momento può sembrare insostenibile, ma io ritengo che il gioco valga la candela.

*** Sii tu il cambiamento che aspetti ***

Virtuali noi?

Cara amica, non ti scriverò oltre, sarebbe un venir meno a quell’andare su strade diverse che abbiamo o provocato o scelto ma una cosa, se avessi potuto parlarti ancora, ti avrei chiesto: perché parlare ancora di virtuale, quando parliamo di questo mondo?

Perché parlare di noi, che siamo in carne ossa, e abbiamo una vita, una storia, come se fossimo i Sims o che altro, figurine create al pc, cui è irrazionale tributare sentimenti?

Qualcuno lo fa. Spegne il pc, si è stancato del videogioco, e sembra che una volta oscurato il monitor noi non esistiamo più. C’è chi lo fa, sì, c’è chi lo fa.

Noi no, noi non l’abbiamo mai fatto, e quando uno ci mette l’anima bruciarsi le penne è un attimo.

Magari qualcosa più delle penne: io, nella circostanza che sai, mi sono sentita un pollo arrosto. Piucchealtro una polla, ma stai a guardare il capello! 😉

Però diciamocelo, nella cosiddetta vita reale, non succede lo stesso? Non ti è mai sparito nel nulla un amico, un’amica, un amante, e che differenza fa se invece di spegnere il pc non rispondeva al telefono? E che cambia se invece di ignorare le e-mail ignorava le lettere vergate su carta?

Che su quelle magari si vedeva la lacrima che ci era scesa, mentre questo l’e-mail ce lo risparmia? Che cambia, dimmi, che cambia?

Perché un mezzo di comunicazione che anziché chiamarsi posta, anziché chiamarsi telefono, si chiama internet, si chiama pc, dovrebbe strapparci sentimenti e identità e farci diventare “virtuali”? Perché dietro una tastiera dovremmo scomparire, e apparire al nostro posto marionette, o magari burattini cui si allunga il naso quando parlano di sé? Che questi, poi, esistono pure, ma sono esattamente gli stessi che incontriamo nella vita di tutti i giorni, e che ci mentono, truffano, ingannano.

Un mezzo di comunicazione veloce, come internet, non ci snatura e, purtroppo, non ci mette al riparo da nulla di ciò che è umano.

E, per un verso, ben venga che sia così.

Ma allora, perché ti stupisci che le ferite che si aprono su questo fronte sono tutt’altro che virtuali, perché ti stupisci di quanto male facciano, e di quanto sangue sgorghi?

Ora, amica mia, ti stai forse riparando nell’altro mondo: che però è uguale, uguale, uguale…