Le parole della Shoà

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Non rende l’idea dire che chi ha vissuto la Shoà è traumatizzato: il fatto è che è segnato a sangue per il resto della sua vita, lui e – forse per memoria genetica o forse per il clima respirato in casa, i ricordi, i racconti, il dolore taciuto ed altro – anche i suoi discendenti.

Wiesenthal diceva che anche gli ebrei nati dopo la guerra sono dei sopravvissuti, e vi assicuro che l’affermazione ha un suo perché. A me personalmente è capitato più volte di sognare le persecuzioni, che stavo in un cinema ed entravano i tedeschi, con le armi spianate, e cercavano di portarci via, e noi cercavamo di fuggire.

Persino mia figlia ha fatto sogni del genere, un incubo popolato di soldati con stivaloni neri che marciavano al passo dell’oca: io non credo ci sia altra spiegazione che la memoria genetica.

Insomma, molto spesso tanti ebrei (e a volte anche non ebrei, con decisamente meno diritto) si inalberano se qualcuno usa dei termini che fanno parte del macabro vocabolario della Shoà, quali “olocausto”, “camere a gas” etc.

Ora, da una parte i miei correligionari si devono rendere conto che certe parole hanno anche un altro significato e devono essere decontestualizzate e ricontestualizzate, e che non si può gridare ogni volta alla “banalizzazione della Shoà”, come per esempio quando un vegetariano o un vegano chiamano olocausto quanto succede al mattatoio o gli antiabortisti definiscono olocausto la soppressione di miriadi di embrioni e feti che avviene quotidianamente nel mondo, fuori o dentro ospedali e cliniche.

Sull’altro fronte però chi non l’ha passato, buon per lui, deve anche fare uno sforzo in più per capire quanto possiamo essere traumatizzati e quante generazioni e secoli di pace ci vorranno per cancellare – o almeno attenuare – il dolore di questa memoria.

Tutto questo mi tornava in mente qualche giorno fa quando il medico mi ha detto, data la mia situazione ponderale, che dovevo fare la “dieta Auschwitz”: giuro che un pugno allo stomaco mi avrebbe fatto meno male. Peraltro non ho mancato di rispondergli che abbiamo già dato, ma con tutta la sua intelligenza e anche il suo acume sul piano umano dubito che abbia capito il mio stato d’animo e la sua gaffe.

Purtroppo dobbiamo rassegnarci al fatto che abbiamo una ferita aperta che gli altri, buon per loro, non hanno: a me la parola “forno” ricorda più la sventurata fine di mio nonno che non la torta alla vaniglia della nonna, e quindi vorrei invitare a uno sforzo su entrambi i fronti, da una parte a non gridare sempre alla lesa maestà quando è chiaro che nell’interlocutore non c’è la benché minima cattiva intenzione, dall’altra a mettersi nei panni della persona che ha un vissuto, diretto o indiretto, cosi terribile, capire quando si è usata un’espressione impropria, e soprattutto cercare di non farla, di capire che per noi tutto ciò che riguarda l’olocausto è ancora campo minato e non sarà facile tornare alla normalità: sono passati più di settant’anni? E secondo voi sono sufficienti per dimenticare un abominio tale, con ancora in vita le persone che hanno visto deportare i propri cari sotto i propri occhi e moriranno senza essersi mai dati pace della fine che hanno subito?

Auguro a tutti una vita di pace e di serenità e, già che ci sono e l’argomento è attuale, di rispetto e solidarietà per chi fugge dalla guerra, dalla fame e dalle carestie.

9 thoughts on “Le parole della Shoà

  1. Gli anni non si contano quando si tratta di genocidio, chi tenta di cancellare o attenuare sbaglia: è la memoria storica che salva dal ripetere gli errori. Purtroppo quella a lungo termine si sta gradualmente perdendo insieme alle vittime dirette che, per ragioni anagrafiche, non ci sono più. Stesso discorso per la Resistenza, con le dovute proporzioni.
    Sai che l’episodio che hai raccontato me ne ha ricordato uno analogo? Anni fa, accompagnai mia suocera dal medico. Per questioni di salute era per lei necessario mettersi a dieta, imperativo ripetuto dal quel medico in vari anni e con zero risultati perché mia suocera, ottima cuoca, di seguire la dieta proprio non ne aveva la minima intenzione. O meglio, diceva di mangiare poco e che il suo era un problema di costituzione. Be’, il medico di cui sopra le ha risposto “nei campi di concentramento non avevano queste storie”. Ecco, a proposito di sensibilità. 😉
    Si sta bene qui. Buona giornata Diemme.

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    • Anche a me in passato la mamma di un’amica aveva fatto questa battuta, che capisco volesse dire semplicemente “non dire baggianate, se non mangi non ingrassi”, ma a sentirsi dire “Ad Auschwitz non c’erano obesi” si fa fatica a reprimere una reazione poco ortodossa.

      Grazie del tuo passaggio, cara Primula, mi fa piacere ti sia trovata bene qui 🙂

      PS: il pezzo che ho linkato sui sopravvissuti l’hai letto?

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  2. Considerazioni, le tue, come di consueto piene di moderazione e buon senso. Due qualità che purtroppo è sempre più difficile riscontrare nel prossimo. Da osservatore esterno sensibile all’argomento, ho notato spesso come i riferimenti alla Shoa finiscano per essere accolti con malcelata sopportazione. Mi è capitato addirittura di sentir dire da un’amica (giovane ma non giovanissima, dunque nemmeno protetta dalla presunzione di ignoranza tardo-adolescenziale), dalla quale mai mi sarei aspettato certe opinioni, che sì, vabbè, in Israele “si sono poi rifatti abbondantemente coi Palestinesi”. Una banalità disarmante e incoerente, sotto ogni profilo, che mi ha fatto pensare all’incubo ricorrente di Primo Levi: raccontare e non essere nemmeno ascoltato, figuriamoci creduto. Onestamente, simili spiragli su voragini di insensibilità e totale mancanza di memoria storica mi fanno accapponare la pelle.

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    • Di chi fa certe osservazioni mi chiedo se non sappia cosa sia stata la Shoa, non conosca la situazione in Palestina, oppure sia solo di una malafede disumana. Tonnellate di aiuti umanitari che Israele manda a Gaza in continuazione, palestinesi curati negli ospedali israeliani – quante vite soprattutto di bambini palestinesi salvano in continuazione! -, arabi con cittadinanza israeliana in posti prestigiosi (anche giudici di tribunali), militari israeliani presi a sassate dai bambini di Gaza senza reagire, o che aiutano magari anziane palestinesi a portare le sporte della spesa o automobilisti in panne a cambiare le ruote… scene di normale amministrazione in Israele, e poi pensi che nel mondo c’è chi paragona questa situazione a quella degli ebrei nell’Europa nazista! Foto fasulle sbugiardate mille volte anche da fonti palestinesi, eppure ogni volta riproposte per gridare al “mostro sionista”: mi dispiace, io non credo più nella buona fede dei propal. Per la questione territoriale, possiamo pure restare nel campo delle opinioni e ciascuno ha la sua, ma non mi vengano a paragonare le condizioni dei Palestinesi a quelle degli ebrei sotto le persecuzioni razziali, la Germania nazista all’umana ed etica Israele: fin troppo umana ed etica, visto che i terroristi rimasti feriti negli attentati li porta nei propri ospedali, e se per caso un soldato gli spara dopo che è stato neutralizzato il soldato viene condannato dai tribunali israeliani senza se e senza ma, senza considerazione per la situazione di stress, di tensione, di paura, etc. etc. etc. Proprio come sotto il nazismo, tale e quale, quando si giocava al tiro al piattello coi neonati ebrei. No, mi dispiace, non lo accetto, la mia democrazia e la mia moderazione non arrivano ad accettare certe affermazioni che andrebbero punite come crimini!

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    • Sono d’accordo. Ma più che malafede, a cui almeno si potrebbe riconoscere una qualche motivazione, per quanto meschina e distorta, temo più si tratti di superficialità, indifferenza, ignoranza. I mali peggiori, secondo me, di questa come di qualunque altra epoca. Senza l’indifferente compiacenza di ampi strati della popolazione, i nazisti non avrebbero potuto agire indisturbati come hanno agito.

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  3. Pingback: I figli della Shoà | Diemme - La strada è lunga, ma la sto percorrendo

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