Accompagnarti a morire

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In tanti anni di attività sociale, che sia stata di volontariato o accademica, ho sempre scelto di occuparmi o di bambini, o di donne in difficoltà, o di immigrati, cioè di persone che, con un giusto intervento di reinserimento sociale, potevano accedere a una vita regolare e a pieno titolo.

Non ho mai voluto invece occuparmi di disabili gravi o di malati terminali, perché conosco i miei limiti, e ho sempre ritenuto di non farcela.

Poi, capita che la vita ti metta su strade che non ti saresti mai scelto, ti metta a confronto con i tuoi fantasmi, con le tue paure, che però non ti puoi permettere di avere, ti trovi in ballo e devi ballare, e oltretutto con la prospettiva di tempi anche più foschi.

Tempo fa un medico pose un quesito in un intervento su fb: dire o non dire al paziente del suo (grave) stato di salute. Io, che sono una strenua sostenitrice del libero arbitrio, ho sempre sostenuto che una persona abbia il pieno diritto di rimanere responsabile della propria vita fino alla fine, e quindi sapere cosa le spetta, ma non tutti la pensano così. Oltretutto, questo sapere che la gente – in genere i familiari – la verità non te la dicono, ti porta a vivere sempre in uno stato d’angoscia, non essendo tranquillizzato da nessuna diagnosi favorevole, sempre sospettando che non sia reale (e tutto questo senza contare gli errori diagnostici, quelli in cui ti dicono che non hai niente e ci lasci le penne, nonché quelli in cui ti dicono che hai qualcosa di grave, e magari o la fai finita o fai qualche altro atto estremo, poi invece non avevi niente).

Fatto sta che stare accanto a una persona che versa in condizioni gravi e trovare parole per consolarla, è davvero un’impresa dura, e i conti con quella simulazione e dissimulazione, che nella vita hai sempre rifiutato, ti ritrovi a farli, e quel dire quello che non pensi, che pure non hai mai voluto fare, pagando conti anche salati, pure quello ti ritrovi a fare, sempre.

E l’angoscia che ti porti dentro rimane un problema solo tuo.

60 thoughts on “Accompagnarti a morire

  1. Accompagnare una persona verso una fine consapevole mentre tutti fingono un falso e deludente ottimismo è impresa seminata da difficoltà psicologiche, relazionali e dalla propria stanchezza fisiologica. Accudire gli altri è un gesto meraviglioso; ma non tutti sono in grado di andare fino in fondo perché il coinvolgimento ti distrugge e affievolisce le tue riserve emotive. Nella vita, per il mio lavoro, ho incontrato centinaia di persone, bambini, ragazzi e famiglie in situazioni estreme spesso sommate tra loro. Ho anche accudito i miei anziani genitori …mi è costato tantissimo affettivamente. C’ è un nostro personale limite all’altrui sofferenza interiore e fisica anche se andiamo avanti con il buio nel cuore. Marisa

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    • Non è solo il fatto del malato terminale, è anche la questione, per esempio, della persona rimasta invalida in seguito a malattia o incidente. La riempi di parole colme di ottimismo, additandogli ad esempio altri che ce l’hanno fatta, gli elenchi tutte le cose belle della vita, e dentro di te sai che, se ti trovassi al suo posto, apriresti solo la finestra per farla finita. Chi assiste però un’alternativa a dire quello che non pensa non ce l’ha.

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  2. Dire o non dire la verità? Dipende dal malato che hai davanti: è capace di reggere la verità sul suo stato di salute? Ha fede in una vita migliore? Soffre molto e desidera solo liberarsi dalla sofferenza oppure è attaccato alla vita nonostante tutto?
    Se conosci la risposta a queste domande puoi agire di conseguenza, consolarla con parole appropriate al suo modo di sentire e vivere la situazione, altrimenti è veramente angosciante per te trovare le parole giuste per consolarla. In questo momento devi cercare di non pensare a come sei tu…..ma a quello che il malato/a vorrebbe sentirsi dire. Non è semplice né facile, limitati negli incontri a stare accanto alla persona in questione con un atteggiamento più sereno possibile.

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    • La valutazione del malato, se è in grado o no di reggere la verità, cos’è quello che vorrebbe sentirsi dire, è una valutazione personale, che fanno le persone che gli sono accanto. Per quanto mi riguarda, le persone che ho accanto con me non ci hanno azzeccato mai, e se mi trovassi in difficoltà penso sarebbe la stessa cosa; per questo penso che la nostra valutazione sia fallace, sono casi talmente delicati in cui davvero come si fa si sbaglia, ma qualcosa comunque devi dirla e devi farla!

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    • Un’altra cosa però vorrei aggiungere sulla valutazione del malato: che comunque egli sia, nel momento della malattia e del disagio potremmo trovarci a confrontarci con tutt’altra persona, e chi ha sempre sostenuto di voler sapere, di fronte al caso concreto magari vorrebbe chiudersi gli occhi, mentre chi ha detto che non ce l’avrebbe fatta a sopportare una diagnosi infausta, si attacca alla vita e combatte: è tutto così difficile!

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  3. Non fare morire la speranza in chi sta per morire.. la speranza di una guarigione terrena forse, ma ancor più di un oltre possibile, casa comune, luogo dove ritrovarsi quando sarà il momento.
    Ma c’è di peggio, quando la malattia toglie (o sembra togliere) con chi si avvicina al misterioso traguardo della vita, la possibiltà di comunicare.
    Presto tardi sapremo… e forse sarà una scoperta meravigliosa..

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  4. Forse. Non lo so però, a meno che uno non sia sostenuto da una grande fede, potrebbe non essere consolatoria una vaga prospettiva di un improbabile aldilà. Forse, piuttosto, potrebbe essere desiderata la fine della sofferenza.

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    • Non c’è bisogno di fede, se per questo intendi un legame con una visione dettata da una religione, quale essa sia…. si può aver comunque fede, nel senso di fiducia nella possibilità di un oltre gradevole e comunque esistente, reale.
      Le religioni sono solo strutture… di esse si può fare a meno, conservando solo il loro lato tradizionale, simbolico, “folcloristico”.

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    • Avevo capito, ho detto fede, avrei potuto chiamarla spiritualità, ma nessuna delle due è una certezza. Al massimo, uno può sperarlo: anch’io, che potrei dire di avere avuto anche esperienze con persone dell’aldilà, lo spero senza sentirmene assolutamente sicura.

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    • A rigore fede significherebbe, secondo me, accettazione acritica (non incrinata dal dubbio) di una verità asserita, ma non provata.
      Non per nulla ho parlato di fiducia nella possibilità… che poi equivale a speranza, che è anelito verso qualcosa di possibile, auspicabile, ma non certo, né assunto come certo.

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    • Penso che una persona viva e attiva, che si senta un vegetale in un angolo, dipendente da tutto o da tutti, sia sofferente al di là delle promesse o speranze dell’aldilà. Io, per me, probabilmente lo sarei.

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  5. “E l’angoscia che ti porti dentro rimane un problema solo tuo.” …..
    Rifletto su queste tue parole, @Diemme cara …. e, razionalmente, non posso che darti ragione !
    Siamo soli … sì, amareggiati per la nostra impotenza a rendere immortali, su questa terra, le persone che amiamo più di noi stessi, soli e smarriti in un mondo a cui, le nostre sofferenze e quelle dei nostri famigliari malati, sono estranee …. soli e persi noi stessi poiché incapaci di scegliere fra il dire la verità o il celarla, mentendo fino in fondo !
    Eppure … NON è la fede a sussurrarci che nulla muore, NON è la fede ( quella religiosa … intendo ) a spingerci a lottare per realizzare quel sognato mondo ideale che sia più equo e vivibile per tutti : come dice @Lucetta, dobbiamo sforzarci a stare accanto al malato/alla malata il più serenamente possibile, portandogli/portandole il nostro aiuto ….
    Non è poco !

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    • Mia nonna era solita dire. “Che Dio non ce lo faccia mai provare!”, ma non è che si abbiano grandi alternative…

      Mah, cercherò nei giorni prossimi di postare qualcosa di più leggero. 🙄

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  6. Almeno una volta nella vita, tutti ci affrontiamo la questione … qualcuno a noi cara avrà bisogno del nostro sostegno, e a quel momento non hai tempo di pensare! solo agire. Io penso che comunicare o meglio dare il tempo per prepararsi e giusto!
    Per il resto, io non credo/non mi interessa il “dopo”! Io voglio amare ed essere amata in questa vita! …
    un abbraccio per te 🙂

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    • Si è allungata la vita, ma insieme ad essa si è allungato il periodo di disabilità, e questo in un momento storico in cui le famiglie sono sfasciate, o lontane, o entrambe le cose.

      Un tempo, l’anziano stava nella casa coi suoi figli e i suoi nipoti, e sicuramente soffriva meno la disabilità, e anche per i familiari il carico era minore. Ora gli anziani vivono soli, e per assisterli i figli dovrebbero tornare magari dalla Francia o dall’Australia, ma fosse pure da un’altra città o da un altro quartiere, a decine e centinaia di chilometri di distanza. Tutto questo da rendere compatibile con il lavoro, visto che la figura dell’angelo del focolare non c’è più, in pensione non ci andiamo più, e quindi intorno a chi ha bisogno c’è il deserto assoluto.

      Prolificano ospizi e badanti: quanta tristezza!

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    • Si Diemme, e vero, ma mi viene la domanda spontanea? Perché sono cosi soli i nostri anziani? già, perché?

      “Un tempo, l’anziano stava nella casa coi suoi figli-”

      Ultimamente ho toccato con le mie mani, le vite di anziani in ospizio, come volontaria … e ti dico, meglio morire che stare a quel posti. 😦
      – infatti io dico sempre, al momento di non essere autosufficiente, voglio essere abbattuto!
      – quello non e vita degna di continuare a vivere. Infatti la morte per me e … “andare a riposare”
      Doloroso argomento, … troviamo mille scusa, ma e mai possibile che una madre cresce 10 figli, e noi non siamo capaci di rendergli la fine della vita più che dignitosa con il calore della famiglia?

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    • Qui si dice “Una madre è buona per cento figli, e cento figli non sono buoni per una madre”. E’ pure vero però, diciamocelo, che io tutti ‘sti figli snaturati in giro non li ho visti. Casi lontani sì, vecchi abbandonati in ospizio sì, ma dei miei e dei miei amici stretti nessuno ha ricoverato i genitori in ospizio. Magari, mi dirai, hanno messo una badante (per i motivi di cui sopra), o un badante nel caso del padre, (per evitare che l’amorevole giovane badante s’innamorasse perdutamente del ricco /ottantenne/novantenne invalido e con lui convolasse a nozze pappandosi il patrimonio di famiglia 😉 )

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  7. L’angoscia che ti porti dentro è quella dell’impotenza, bisogna farlo e si fa….trovando una forza che non si supponeva d’avere ma che ora serve…e viene fuori. Si cerca di farli stare il meglio possibile, e soprattutto di farli soffrire il meno possibile…. per il fatto di sapere la situazione vera, io non l’ho mai detta esplicitamente, ma mio padre sapeva come sarebbe andata a finire dall’inizio, anche se, anche lui, non ne parlò mai esplicitamente…..

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  8. Sto vivendo questa situazione con mia madre, molto anziana e malata. Con mia sorella stiamo facendo di tutto per accudirla, farle fare una vita quasi normale (non esce più di casa per problemi motori ed è afflitta da vari dolori), farla stare il meglio possibile e tentare di mantenere la situazione che c’è il più a lungo possibile. Lei è lucidissima e consapevole di un non miglioramento. Accetta le cure in modo parziale, rifiuta l’accanimento e quando sa di qualche sua amica anziana che muore mi dice: “spero presto anche io di andare in cielo, non ha senso vivere così”. Ed io perdo le parole e mi chiudo in un’infinita tristezza.

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    • Cara Ili, sono le parole di tutti, sapessi quante ne ho sentite! Mia suocera passò gli ultimi anni in un istituto, fummo costretti perché era incontenibile (aveva cercato anche di scavalcare la finestra e non per suicidarsi, semplicemente per uscire da casa 😯 ), e sapessi lì quanti e quali casi umani ci siamo trovati di fronte!

      Che poi, bisogna farli aggrappare alla vita in qualche modo, perché quando poi si mettono in un angolo ad aspettare la morte, in genere ci riescono benissimo 😥

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  9. Un tasto che mi tocca da vicino….nel momento della malattia ho chiesto ai medici, anche firmando, che prima dovevo essere io messa al corrente di tutto ciò che mi riguardava, anche la fine della mia vita, e così è stato, ai miei famigliari ho imposto la verità, ma ho anche chiesto di non stare lì a sfiancarsi psicologicamente, fisicamente accanto a me quando pensavano di non farcela, non avrei sopportato vederli soffrire o dover recitare, sarei stata più serena al contrario. io stessa ho, proprio nel periodo della malattia, assistito una ragazza che era in stanza con me, negli ultimi giorni della sua giovane vita. Prova dura, durissima, difficilissima, ma mai e poi mai l’avrei lasciata, anche se mi distruggevo nel vederla andare via piano piano. E’ un discorso molto intimo, molto forte…la domanda è perchè chiedere a chi non riesce una prova simile? Non credo sia necessario.

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    • Invece io credo sia necessario. Assistere un familiare è un dovere, e la vita è fatta di gioie e dolori, bisogna accogliere le gioie, e non fuggire davanti al dolore, anche quello ci forma e ci forgia.

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    • Un dovere? Sicuramente, ma ci sono persone che non riescono proprio, e non si può imporre ne la sofferenza ne la non sofferenza. Va rispettato anche chi non è in grado di farlo.

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    • Per tutti, salvo qualche impietrito cinico forse, è sofferenza, per tutti, salvo i cinici di cui sopra, è sofferenza insopportabile, e allora che fai, lasci il tuo familiare da solo?

      Mi diceva una persona, che assisteva un genitore: “Quando sto a casa non vedo l’ora di ritornarelì per stargli vicino, ma quando sto lì non vedo l’ora di scappare via perché non ce la faccio”. Credo sia così un po’ per tutti.

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  10. Parli di un argomento molto duro e spinoso ! Purtroppo che conosco per avere toccato con mano per ben due volte . E’ veramente difficilissimo e faticoso assistere persone con malattie gravissime e dover fargli coraggio a tutti i costi senza cadere nel compassionevole . Poi, quando ci sei in mezzo, lo spirito spunta fuori e la forza da qualche parte la trovi . Finita la tristissima situazione si resta distrutti completamente svuotati, almeno questo è capitato a me. Poi col tempo ci si riprende, ma le cicatrici restano indelebili. Ormai i medici non nascondono quasi più la situazione in caso di grave malattia, non so se sia un bene o un male , ma sono per la sincerità in ogni caso. Sono quelle situazioni che dimentichi totalmente te stessa mettendoti a completa disposizione dei tuoi cari per fargli gravare il meno possibile la situazione. Le strutture geriatriche sono posti tristissimi, ma ai giorni nostri se non ci fossero sarebbe ancora peggio, possono risolvere almeno in parte, situazioni ingovernabili.
    Grazie per averne parlato .
    Un abbraccio cara Elisa 🙂
    rosy

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    • Quelle che funzionano. Quelle che rispettano l’anziano, che saranno asettiche ma, come dici tu, meglio di niente. Se però un essere umano deve finire i suoi giorni umiliato, legato, picchiato, insultato, imbottito di medicinali che lo intontiscono, privato di qualsiasi dignità e praticamente di ogni alito di vita, meglio una morte dignitosa, o meglio morire abbandonati a casa propria, perlomeno liberi!

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  11. Ad ulteriore riprova di quanto un Blog ( ove sincero, e non specchio di narcisistiche verità … ) sia, non di rado, più reale della realtà …. basta rileggersi il tuo post, @Diemme cara, ed i tanti commenti che lo corredano di altre piccole-grandi verità, ciascuna frutto di personali sofferenze, amare esperienze … dolore !
    Sì dolore, dolore patito in proprio o dolore che ci arriva da altri che soffrono, o hanno sofferto, nelle stesse nostre situazioni, e ben poche sono le parole in grado di esprimere questo sentimento amarissimo nella sua intera entità, ben rare, se non inesistenti, le anguste e tortuose strade da percorrere per uscirne fuori ….

    Mentre piangevo, un pianto udìi altrove …
    e lacrime mischiai con altri …. ancora,
    non nata all’ orizzonte era l’ aurora,
    poche le stelle … e buio in ogni dove .

    Mi feci cavalièr …. e fui errante,
    vagabondai sul mare, al monte e al piano,
    sfuggir volli al dolore e andar lontano,
    smarrirmi sulla stella più distante !

    La notte venne e poi venne il mattino,
    ma quel dolore dentro non cessava …
    la vita e il tempo intanto trascorreva,
    soffrire è forse scritto nel destino !

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    • Ma che bei versi, cavaliere, e davvero tanta poesia nelle tue parole!

      “Mentre piangevo, un pianto udìi altrove …
      e lacrime mischiai con altri …. ancora”

      è il segreto della vita, la solidarietà, l’empatia, il sentirsi comunque anche tutti sotto uno stesso cielo.

      Ora quasi quasi questa poesia me la metto in un widget del blog, così non me la perdo! 🙂

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  12. Sai a volte capita che tu non dici a qualcuno che ami che sta per morire ma lei lo sa lo stesso, se ne accorge, solo che per un tacito patto tu non lo dici, lei neanche ma se vi guardate negli occhi e vi conoscete sapete che state mentendo entrambe. Solo dopo aver visto qualcuno morire si inizia a pensare seriamente che se capitasse a te di stare così male vorresti poter scegliere come andartene.

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    • Lo so, mia nonna è stata ” fortunata” perché verso la fine è andata in coma. Solo quando mi trovavo vicino al suo letto all’ultimo mi sono accorta che non pregavo più per un miracolo ma perché non soffrisse più. Le fasi prima del coma sono state tremende per lei, e per quanto abbiamo mentito bene aveva capito tutto.

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  13. Aveva 64 anni e ora la sua migliore amica sta morendo in maniera simile e anche se nessuno gli ha detto tutto ha detto che vuole tornare a casa a ” sistemare le cose “. All’inizio pensavo che i dottori non dicessero la verità al paziente solo nel caso di persone in là con gli anni; ma quando è successo ad un’amica di mia madre mi sono resa conto che è una scelta personale del medico, perché non lo hanno detto neanche a lei. Inizio a pensare che dicano la verità solo quando pensano ancora di poter intervenire in qualche modo, ma i diretti interessati se ne accorgono purtroppo.

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  14. Pingback: Tecnicamente: la psw | Diemme

  15. ho provato queste sensazioni purtroppo……
    prima con mio padre, 58 anni e poi con mio suocero, 64.
    esistono parole, pianti nascosti e sorrisi falsi….
    ma il cuore rimane ferito e rimangono sempre tracce di tutto cio’, rimorsi, pentimenti,
    non è facile, per niente.
    bellissimo post uno dei migliori che ho visto in questo mondo.

    marcello

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  16. nel tuo post affronti dettagliatamente un argomento molto duro.
    Io che ho lavorato per molti anni in un Ospedale, ho assistito anche al suicidio di un paziente al quale il medico aveva detto “tutto” sulla sua malattia.
    Purtroppo ognuno reagisce in un modo a una simile rivelazione. La maggioranza dei medici è comunque allineata al non dire nulla al paziente ma ai soli familiari…
    un caro saluto e complimenti per il tuo lavoro a favore dei più deboli

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    • Grazie Antonio del tuo intervento, e benvenuto!

      Quando ti danno una notizia del genere, sempre ammesso poi che sia vera, prima subentra la disperazione, poi forse la rassegnazione, infine una prorompente voglia di vivere ma, come sappiamo, dipende dalle persone, dai contesti, dai casi. Un conto è sapere di avere una vita breve e magari ti viene pure voglia di viverla concentrata, di non perdere neanche un giorno, di rubarle la tua fetta di felicità, un conto è la sofferenza. Io non sono contraria al suicidio, non ho una visione dolorifica della vita: in nome di che cosa i medici si permettono di condannare un paziente ad affrontare, fino alla fine, un dolore insopportabile cui avrebbe potuto porre fine prima perché, tanto, sempre di fine stiamo parlando? Io posso anche essere una persona credente, e ritenere che non abbiamo il diritto di toglierci la vita, ma abbiamo il diritto di imporre la nostra fede a un altro, o meglio, imporre a un altro la sofferenza perché noi abbiamo fede?

      Per quanto riguarda i familiari… mah, a volte possono essere le persone al mondo meno in sintonia con il malato!

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